22/11/2011
Gl scintro in piazza Tahrir, al Cairo (foto Ansa).
Dopo le ultime giornate, si può dire che la Giunta militare che da quasi un anno regge le sorti dell'Egitto è avviata sulla strada di Bashar al Assad in Siria: potrà conservare il potere ma la sua legittimità è ormai nulla. E le dimissioni del primo ministro Essam Sharaf e del suo Governo, pr0ntamente accettate dai generali, sono un ulteriore chiodo sulla bara di un esperimento fallito.
Nel febbraio scorso, quando il dittatore Hosni Mubarak cadde dopo 18 giorni di manifestazioni e proteste, dai cortei si levava spesso il canto "Studenti e soldati una cosa sola". L'idillio è ora annegato nel sangue di decine di morti e migliaia di feriti, negli scontri che infiammano un numero crescente di città: dal Cairo ad Alessandria, da Suez a Ismailia, da Qena ad Assiut.
Forse i movimenti giovanili che avevano animato le prime proteste sono stati troppo ingenui, o forse era inevitabile, a quel punto, che le forze armate fossero comunque percepite come un indispensabile elemento di continuità dopo la fine di una regime durato trent'anni.Ma la giunta diretta dal maresciallo Hussein Tantawi, e formata da generali che fino a poche settimane prima erano tra i fedelissimi di Mubarak, ha fallito il suo compito e ha mancato un'occasione storica. La sua missione era di impedire lo sfascio del Paese e di traghettarlo in modo democratico verso una seria politica di riforme e un Governo di civili.
Non è stato così.La riforma della Costituzione, approvata per referendum il 21 marzo con il 77% dei consensi, è stata un primo passo. Purtroppo l'unico passo. Giorno dopo giorno, incertezza dopo incertezza, repressione dopo repressione, i militari si sono alienati le simpatie di tutti gli strati politici e sociali. I riformisti temevano le elezioni convocate per novembre (e rese possibili, peraltro, proprio dalla riforma alla Costituzione) e sapevano che al momento del voto avrebbero pagata cara la loro disorganizzazione. Una minoranza corposa come quella cristiana (10% della popolazione) si è sentita abbandonata di fronte ai rigurgiti dell'islamismo. I Fratelli musulmani hanno registrato il malcontento di una base fatta di borghesi e proletari che, in modo diverso ma comunque pesante, hanno pagato la mancanza di liberalizzzazioni sotto forma di una pesantissima crisi economica. Liberalizzazioni che, peraltro, non si possono fare se l'apparato militare non molla la presa su interi settori economici, controllati dai generali e assistiti dallo Stato con forti aggravi per le casse pubbliche.
Il risultato è che per domani è convocata in piazza Tahrir una manifestazione che porterà in piazza un milione di persone. E ben 35 movimenti di diversissima ispirazione si sono dati appuntamento per quella che non è più una protesta ma vorrebbe essere una spallata al regime dei generali.
Così, mentre l'Occidente si faceva paura da solo con i soliti spettri sui rischi dell'estremismo islamico, anche in Egitto come in Siria le stragi arrivano dall'estremismo laico di un governo militarizzato. Di colpo nessuno si chiede più se i morti siano cristiani, anche se è più che probabile che di cristiani ve ne siano molti tra i ragazzi di piazza Tahrir.
Com'era stato facile prevedere, comunque, gli obiettivi minimali delle potenze europee e degli Usa (via i dittatori impresentabili, qualche riforma di facciata, intervento dove c'è il petrolio e indifferenza dove il petrolio non c'è) rischiano di complicare la questione. La Siria è in bilico da mesi e l'Egitto è sulla buona strada. Aiutare la Primavera araba con più decisione e fin da subito avrebbe fatto meno danni.
Fulvio Scaglione