26/02/2011
Paola Mastrocola.
La scuola italiana manda all’università persone con una preparazione inadeguata, zoppicanti nella loro lingua madre, incapaci di apprendere in profondità. Così, in sintesi, Cesare Segre ha raccolto e rilanciato sul Corriere della Sera di ieri il dibattito sulla “scuola facile” innescato dal volume Togliamo il disturbo, saggio sulla libertà di non studiare, pubblicato per Guanda da Paola Mastrocola.
Segre e Mastrocola denunciano sacche di ignoranza diplomata. Leggiamo, però, tra le righe, che una parte della responsabilità, per questi guai della scuola attuale, sarebbe da attribuire alle teorie pedagogiche di don Lorenzo Milani. Ecco, vorremmo spezzare una lancia a favore di don Milani convinti che, se oggi fosse qui, avrebbe parole durissime contro una scuola che livella tutto in basso e che, invece di dare agli svantaggiati la possibilità di elevarsi verso i migliori, appiattisce i migliori verso lo studio al minimo sindacale.
Le lettere vere
È una scuola – quella ritratta dalla Mastrocola - che chiede sempre meno,
terrorizzata dai ricorsi ed è più classista di quella contro cui
polemizzava don Milani. Allora chiudeva in faccia la porta agli
svantaggiati che poi salivano a Barbiana in età da scuola dell’obbligo.
Oggi invece non chiude la porta a quasi nessuno neppure all’università
ma, stando a molte testimonianze, lascia troppi nell’ignoranza da cui
sono partiti. Sicuri che don Milani avesse teorizzato questo sfascio?
Noi non lo crediamo, anche se abbiamo letto la Lettera a una professoressa.
E non lo crediamo anche perché abbiamo letto le sue lettere vere,
quelle agli amici, ai ragazzi, alla madre. E soprattutto abbiamo ben
presente Esperienze pastorali il suo libro più duro e ancora attuale, a differenza di Lettera a una Professoressa
che attuale non è, perché criticava una scuola che non esiste più da
tanto. Sostituita da una peggiore diranno Segre e Mastrocola. Forse, o
forse no, ma non è questo il punto.
Don Milani in marcia con i "suoi" ragazzi.
La scuola dell'obbligo
È che dal giugno 1967 don Milani sta sotto terra nel minuscolo cimitero di Barbiana.
Se qualcuno, dopo, ha trasformato quelle sue pagine provocatorie in un
manifesto, spesso ridotto a slogan, per peggiorare la scuola nel nome di
Milani, tirandolo per la tonaca nel caso, non possiamo farne una colpa a
don Lorenzo. Anche perché uno degli slogan in voga diceva: “la scuola
non può bocciare”, ma quelli che lo gridavano avevano rimosso, forse in
malafede, dalla citazione due parolette fondamentali. Milani scriveva:
“la scuola DELL’OBBLIGO non può bocciare”. (Sottinteso: perché se boccia
lì, perde per sempre e manda i dispersi a badar le pecore per sempre).
Paola Mastrocola ha ragione quando dice che sarebbe stata meno classista
una scuola capace di dare anche ai più poveri la possibilità di
accostarsi all’Iliade del Monti per consentire loro di scegliere se
restare montanari o diventare professori di Oxford. Ma a Barbiana non
finivano quelli rimandati in quarta ginnasio perché svogliati, finivano
quelli che, semianalfabeti, avevano chiuso la loro avventura scolastica a
elementari interrotte senza aver imparato a leggere nemmeno il
contratto di lavoro prima di firmarlo, senza avere la minima idea di
dove fosse Oxford. Erano ragazzi come Nevio, mandato a 11 anni a
bottega dal fabbro e ritirato solo per insufficienza di forza fisica.
Un giorno del 2007 a Vicchio di Mugello abbiamo conosciuto Nevio:
ha fatto per tutta la vita l’autista di autobus, ma parla meglio della
media degli autisti di autobus e quando gli chiedemmo che cosa gli
avesse lasciato don Lorenzo ci disse così: “A me ha lasciato la lingua e
le lingue. Parlo inglese e francese e conosco un discreto italiano. Se
non avessi camminato due ore al giorno con la tuta di gomma nel fango
per andare a Barbiana a piedi - era la più vicina a casa e i pullman
non c’erano - non saprei leggere, capendone i contenuti, la prima pagina
di un giornale”.
Ecco. Nevio, per esempio, che adesso è un signore bianco di capelli,
ha afferrato da quella scuola sulla collina non gli strumenti per
diventare un professore, ma quel tanto che gli basta per capire che cosa
di drammatico sta accadendo in questi giorni nel paese che abitiamo, il
suo conflitto istituzionale, la crisi alle sue frontiere, cosa che
probabilmente molti liceali di oggi stentano a cogliere.
I poveri e l'Iliade
A proposito di quel che scrive Segre, attribuendo a don Milani
avversione per il sapere linguistico, va detto che don Lorenzo faceva
scuola insegnando prevalentemente lingua e lingue, perché era convinto
che avere parole fosse l’unico mezzo per darsi uno scopo più alto che
guadagnarsi a sera un piatto di minestra, l’unico strumento per dare
voce a un pensiero.
Se la prendeva con l’Iliade del Monti, non perché disprezzasse il fatto
che i poveri potessero arrivare a capire anche quella: contestava,
provocatoriamente, il fatto che all’epoca si pretendesse di adoperare
l’Iliade del Monti come punto di partenza. Si può anche dissentire da
questo assunto, ma se la scuola una colpa ha avuto, dopo Milani, è stata
quella di non cogliere il sunto cruciale del suo pensiero: formare
meglio possibile più ragazzi possibili non per farli diventare più
ricchi, ma per farli diventare più uomini. Milani voleva persone
consapevoli di sé e dei propri diritti e doveri. Voleva studenti capaci
di senso critico, l’espressione giusta sarebbe cittadini responsabili.
Se chi ha riformato la scuola italiana nel nome di Milani, se chi ha rivendicato
una scuola diversa nel suo nome, l’avesse fatto con il suo spirito
questo paese oggi probabilmente verserebbe in condizioni migliori.
Forse. Anche perché è giusto ricordare, come Mastrocola fa, anche a chi
l’ha dimenticato, che Barbiana non era una scuola facile. Vi si studiava
per dieci ore al giorno, sabato, domenica, Natale e Pasqua compresi, e
non volava una mosca. Perché don Milani non permetteva. Casomai qualche
pedata, sua, ai più indisciplinati. Era il prezzo da pagare perché
nessuno restasse indietro.
Leggenda vuole che quando chiesero a don Milani come esportare Barbiana
abbia risposto, al solito, provocatorio: “Potete suicidarvi”. L'aneddoto potrebbe essere inesatto alla lettera, ma coglierebbe comunque lo spirito, perché, per fare
quello che faceva lui, ci si sarebbe dovuti votare alla causa senza
pause come aveva fatto lui. E per avere ragazzi motivati come i suoi, ci
sarebbe voluto il Mugello del 1954 come alternativa, anziché il sogno
del Grande Fratello. Oppure un esercito di maestri, magari sostenuti
nella loro severità dalle famiglie e dall’intera società, capaci di
insegnare a non farsi irretire da chi negli anni ha avuto interesse a
che il Grande Fratello prosperasse. Con o senza Iliade del Monti.
Elisa Chiari