03/06/2010
“Non c’è stato alcun rispetto dei nostri diritti civili. Durante il blitz hanno picchiato e brutalizzato molti attivisti, in carcere le pressioni psicologiche sono state fortissime. In cella non mi hanno picchiata ma mi dicevano: vuoi tornare a casa? Ammetti di aver violato la legge israeliana. Noi ci rifiutavamo e allora rispondevano: vorrà dire che resterai qui per dei mesi o forse degli anni. Ci hanno fatto telefonare alle famiglie solo l’ultimo giorno prima di lasciarci andare. Un minuto, ma in inglese. Ho visto telefonate pietose, disperate, di povere donne che non sapevano l’inglese costrette a biascicare qualcosa con le famiglie dall’altra parte del filo”. Angela Lano è la giornalista torinese che faceva parte della “Freedom Flotilla” il gruppo di pacifisti filo-palestinesi attaccati dalle truppe speciali israeliane in acque internazionali e definiti “terroristi” dal ministro israeliano.
“La nostra nave”, ricorda la giornalista al telefono da Istambul “è partita il 23 maggio da Atene in direzione verso la striscia di Gaza. Abbiamo vissuto sette giorni di navigazione con varie difficoltà di coordin amento. Il primo di giugno, in rotta verso Gaza, avevamo raggiunto tutte le altre navi compresa la Mavi Marmara, in pratica l’ammiraglia del gruppo. Tutte insieme, in formazione, abbiamo fatto rotta verso la striscia di Gaza”. Il racconto di Angela prosegue. “La nostra nave greca si chiamava Svendonia, ma l’avevamo ribattezzata 8000, dal numero dei prigionieri politici palestinesi. A 75 miglia dalle coste della striscia di Gaza, all’una di notte, ci siamo resi conto che eravamo circondati dalle navi israeliane. Il nostro capitano ha continuato a ricevere via radio le minacce della Marina israeliana. Gli israeliani dicevano che se non invertivamo la rotta ci avrebbero attaccato. Il nostro capitano rispondeva che eravamo in acque internazionali”. Alle quattro l’attacco. “Era ancora buio. Ci siamo visti attaccare dagli zodiak, questi motoscafi militari velocissimi. Dal ponte potevamo vederli abbastanza distintamente avvicinarsi. A bordo c’erano militari tutti vestiti di nero, armati fino ai denti, che gridavano verso di noi. In cielo vedevamo volteggiare un elicottero che si abbassava sempre di più. Stava dando l’assalto alla Marmara”.
A quel punto i passeggeri delal "Svendonia 8000" si dividono in due gruppi. Gli attivisti si raccolgono sul ponte di comando, a protezione della cabina di pilotaggio e del capitano. “Come reporter ho cercato di coprire l’evento. Ma i militari ci hanno sequetsrato tute le macchine fotografiche e le cineprese. Gli altri attivisti facevano praticamente da scudi umani, ma hanno resistito ben poco. I pacifisti cercavano di mettere in pratica una sorta di resistenza non violenta col corpo. Ma i militari hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma, hanno utilizzato le pisrtole elettriche e poi calci, pugni. Parecchi sono rimasti feriti, a cominciare dal capitano. Uno è stato colpito a un occhio, gli altri hanno subito ferite agli arti e alla testa. Hanno anche lanciato bombe sul ponte”. Il racconto di Angela è preciso, fin nei dettagli. “Dopo che hanno preso il comando della nave ci hanno fatto sedere sul ponte. Per otto ore, perché tale è durato il viaggio fino al porto israeliano, a testimonianza di quanto eravamo lontani dalle acque di Israele. Potevamo andare in bagno solo uno a uno. Ben presto ha cominciato a fare un caldo pazzesco. Se uno provava a muoversi si ritrovava il fucile puntato in faccia. Noi gliene abbiamo dette di tutti i colori. You’re nazist, gridavamo. Siete dei nazisti. I vostri nonni hanno subito l’olocausto e voi stata violentando il popolo palestinese, vi state comportando come i nazisti che cancellarono i vostri nonni. Abbiamo cercato di parlare anche con alcuni di loro. Dicevamo: guardate che vi potete rifiutare, non siete obbligati a svolgere il servizio militare. Loro non rispondevano. Erano un muro di gomma”.
Il governo israeliano ha convocato una conferenza stampa asserendo che le navi nascondevano armi. In verità le foto diffuse alla stampa internazionale mostrano molti coltelli e altre armi bianche. “ma quali armi bianche! E’ un’idiozia dire che avevamo armi a bordo. Le uniche armi sequestrate sono la coltelleria della cucina del ristorante della nave Marnara, che è una nave da crociera”. Quando sul ponte della nave arriva la luce dell’aurora, Angela comincia a scorgere i visi di quei militari. “Erano tutti ragazzini, 20, 22 anni al massimo. Erano molto duri, arroganti, c’è stata violenza fisica e verbale”. Il nastro della memoria va a quei momenti drammatici e concitati. “A un certo momento uno degli attivisti, Paul Larudee, un americano sessantenne, tra i fondatori del Freedom Palestine Movement, si è alzato di scatto e si è buttato in mare. Voleva rallentare la corsa della nave e della flotta. La nostra imbarcazione si è fermata, poi l’uomo è stato raggiunto di una nave militare. Abbiamo assistito alla scena: la distanza era poca. Lo hanno riempito di botte, poi lo hanno trascinato sotto coperta. Lo abbiamo rivisto sulla banchina del porto israeliano, quando siamo sbarcati, gonnfio di lividi ed emaciato, ma fiero”. Il ricordo di Angela ora va al tendone allestito davanti alla banchina. “Lì dentro c'erano vari livelli di controlli. Siamo stati denudati e controllati. Ci hanno fotografati in maniera umiliante. Intanto ci coprivano di insulti e minacce. A un certo punto ci è stato chiesto di firmare un foglio in ebraico e in inglese dove ammettevamo di aver violato la legge. Se non avessimo firmato dicevano che non saremmo tornati a casa".
“Noi cisiamo rifiutati. Siete voi che avete violato il diritto umanitario, rispondevamo. Allora andate in galera, replicavano. Eravamo tutti e 700. Ci hanno preso a gruppi e ci hanno caricato in camion che sembravano camion bestiame nel deserto del Neghev e portati in prigione, a Be’er Sheva, dove tengono i prigionieri palestinesi. Lì siamo stati sottoposti a pressioni psicologiche di ogni tipo. Stavo in cella con una signora ebrea americana antisionista, Janet, e una ragazza musulmana franco marocchian e musulmana, Monia. Due amiche splendide. Poi sono arrivate due ragazze indonesiane. Eravamo una piccola rappresentanza intereligiosa e interclturale, lì in cella, colpevoli di manifestare per la pace”.
Francesco Anfossi