19/05/2012
La strage di via dei Georgofili, a Firenze.
Davanti a una scuola superiore. Alle 7,50 del mattino, l’ora di arrivo degli studenti. In una scuola intitolata a Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone, dei quali ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario della morte a Capaci (il 23 maggio 1992, quando un potentissimo ordigno fece saltare in aria i due magistrati e l’intera scorta). Ci sono tutte le caratteristiche dell’attentato mafioso, nelle bombe esplose questa mattina nell’Istituto alla periferia di Brindisi. Una ragazza di 16 anni uccisa, una in gravissime condizioni, altri cinque studenti feriti gravemente. Gli ordigni – c’è chi parla di due, chi di tre deflagrazioni – pare siano stati occultati dentro zainetti e posti su un basso muretto all’ingresso dell’istituto superiore brindisino, dove si studia moda, frequentato soprattutto da ragazze.
Una bomba per uccidere, insomma, per fare una strage. Bastava che l’esplosione avvenisse 10 minuti più tardi (l’ingresso al Morvillo-Falcone è alle 8,00) perché il bilancio fosse ancora più tragico. Sul posto sono già al lavoro i Ros dei Carabinieri e lo Sco della Polizia di Stato, i due reparti speciali delle forze dell’ordine. Per il momento si piange la giovanissima vittima, si spera per i feriti. La prima cosa che colpisce, però, è che esattamente 20 anni dopo la mafia ripete quella che nel 1992 fu una “prima volta”: le bombe fuori dall’isola, nel “continente”, come si dice in Sicilia. Allora, la strage che uccise Giovanni Falcone, la moglie e la scorta fu la prima di una lunga serie: venne poi il massacro di Paolo Borsellino e degli agenti che lo proteggevano, il 19 luglio 1992, e ancora le bombe di Roma, di Firenze, di Milano.
Le indagini su quegli attentati di mafia e su quella stagione tumultuosa e drammatica della storia italiana sono ancora aperte e in corso. Anzi, sono – a quanto dicono gli inquirenti – piuttosto vicine all’accertamento di nuovi pezzi di verità. Non tanto sugli esecutori materiali degli attentati – di cui oramai si sa quasi tutto – ma sui mandanti e sulle inconfessabili alleanze che portarono le mafie del Sud a coordinare un vero e proprio attacco alla Stato. Eravamo nell’epoca in cui esplodeva Mani Pulite, un intero sistema politico si stava sgretolando. Il maxi processo di Palermo aveva appena inferto un duro colpo a Cosa nostra, condannando decine di mafiosi a centinaia di anni di carcere. E le mafie avevano perso, come hanno riferito diversi collaboratori di giustizia nei anni a seguire, i loro referenti politici.
La strategia stragista delle mafie doveva scatenare la paura nell’opinione pubblica italiana, spaventare il mondo politico e istituzionale. E tentavano di costringere lo Stato a una trattativa, che doveva portare a vantaggi per la stessa mafia in cambio della fine degli attentati. Le inchieste attuali stanno cercando di appurare se quella trattativa ci fu, e cosa fermò l’escalation delle bombe “nel continente”. Ma scavano anche sui rapporti delle mafie con pezzi deviati dello Stato, della destra eversiva italiana e della massoneria occulta. Insomma, sui veri registi delle bombe del 1992-93. Oggi come 20 anni fa la mafia era in difficoltà, e perciò voleva dimostrare di essere tanto forte da colpire ovunque nel Paese e di poter piegare lo Stato. Oggi come allora, un sistema politico era in crisi: tra il 1992 e il 1994 interi partiti scomparvero e dalle ceneri della Prima nacque la cosiddetta Seconda Repubblica. Anche oggi si parla di un sistema politico alle corde e privo di credibilità. E altri partiti vengono decimati dagli scandali. Sono molte le assonanze tra questa stagione italiana e quella del 1992. Troppe.
Luciano Scalettari