12/11/2010
Abitanti di Karachi, in Pakistan, davanti alle loro case distrutte dall'ultimo attentato rivendicato dai terroristi talebani.
Dal nostro inviato a Rawalpindi -
L’incrocio che segna l’ingresso della zona dove, un edificio appresso all’altro, si trovano l’abitazione del vescovo di Islamabad e Rawalpindi, la cattedrale, la libreria gestita dalla società san Paolo nonché una frequentata scuola cattolica, è presidiato da un blindato dell’esercito e da un paio di soldati armati di mitra. Non troppo né poco: i talebani hanno rivendicato il terribile attacco compiuto a Karachi contro il Comando della polizia criminale (almeno 30 morti e 165 feriti) e l’intero Pakistan vive con il fiato sospeso.
I terroristi hanno promesso di colpire ancora il cuore politico del Paese, a un’ora di auto da qui, nel centro di Islamabd, indicando come prossimo obiettivo la casa del Presidente.
«Nessuno può prevedere né escludere nulla», dichiara Shabaz Bhatti, 37 anni, cattolico dichiarato, dal 2008 Ministro per le minoranze. «La tensione è sicuramente aumentata», prosegue. «I talebani sono nemici dell’umanità della pace, della democrazia. Compiono azioni diaboliche».
Il particolare ufficio delle Nazioni Unite che ha il compito di definire il grado di sicurezza redigendo rapporti costantemente aggiornati sulla base di notizie d’Intelligence, segnala un pericoloso deterioramento della situazione e mette in guardia il personale dell’Onu. Le Organizzazioni non governative presenti in Pakistan, cui vengono mandati i rapporti, si comportano ciascuna come meglio ritiene opportuno, ma prevale la prudenza.
La Caritas internazionale e la Caritas pakistana, che in questi giorni hanno promosso un importante incontro per fare il punto sugli aiuti agli alluvionati e sulla ricostruzione, sentiti ancora una volta i propri operatori sul terreno, decidono di annullare tutte le missioni in programma. Vale, ad esempio, per le delegazioni della Caritas francese (Secoure Catholique) per quella della Caritas tedesca e, infine, per quella della Caritas italiana che avrebbero dovuto – con programmi differenti – visitare campi profughi e zone disastrate.
Risulta che si siano saldati tra loro tre elementi diversi: il fondamentalismo (che pare aver ricompattato le fila al suo interno), la criminalità comune che punta agli occidentali e la rabbia crescente di chi ha perso tutto a causa dell’alluvione.
Monsignor Anthony Rufin, vescovo di Islamabad e Rawalpindi, da un anno segretario della Conferenza episcopale pakistana non nega il pericolo («sì, la situazione è peggiorata») ma s’abbandona alla provvidenza: «sappiamo che nel vicino Irak Al Qaida ha definito obiettivo legittimo tutto ciò che è cristiano. Non pensiamo che qui si arrivi a tanto. Il dialogo è possibile, anzi a livello di base è molto praticato. Finora le chiese non sono state prese di mira a differenza delle moschee, delle caserme e dei commissariati. Ci affidiamo a Dio. Non fuggiamo».
Le difficoltà, comunque, non fermano l’attività umanitaria delle varie Caritas che stanno aiutando complessivamente 360 mila persone alluvionate dopo aver reagito alla prima emergenza con interventi pari a 10 milioni di euro.
Alberto Chiara