28/06/2012
Salvatore Grigoli, assassino di don Puglisi (foto e copertina Alessandro Tosatto).
Spunta all’improvviso nella penombra del parlatorio. È vestito di nero: nero il suo pullover, i suoi jeans, le sue scarpette di vernice. In una stanza di un carcere di massima sicurezza Salvatore Grigoli soppesa le parole e le pronuncia con sofferenza.
È stato uno dei killer più spietati di Cosa nostra: ha confessato 46 omicidi, è implicato nelle stragi di Firenze, negli attentati di Roma, in quello ai Parioli ai danni di Maurizio Costanzo.
Ed è l’autore dell’assassinio che gli ha cambiato la vita, quello di don Pino Puglisi, il parroco di Palermo ucciso il 15 settembre di sei anni fa davanti alla porta di casa. Un assassinio che, racconta, «ci sembrò subito come una maledizione, perché da allora cominciò ad andarci tutto storto». Quella che segue è la cruda testimonianza di un uomo di 36 anni che ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’arresto di due anni fa. E che dichiara il suo pentimento.
Quando sentì per la prima volta il nome Puglisi?
«Quando mi hanno comunicato che doveva morire, un paio di giorni prima di ucciderlo».
Perché era stato dato quell’ordine?
«C’era
la convinzione che il Centro Padre nostro, da lui creato, fosse un covo
di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma
innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e
la gente sentiva questo suo fascino, soprattutto i giovani».
C’era qualche frase in particolare?
«Non
so se c’era una frase particolare, anche perché a noi le cose ce le
riferivano. I Graviano (i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di
Brancaccio, accusati di essere i mandanti, ndr) non andavano alle sue
messe. Erano cose che gli venivano raccontate. Ma Cosa nostra sapeva
tutto, pure che continuava ad andare in Prefettura e al Comune per
chiedere la scuola media e il recupero degli scantinati di via Hazon,
che voleva fare requisire, il Comitato intercondominiale, le prediche.
C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a
raccontare».
Prima dell’omicidio ci furono le vostre
intimidazioni: l’incendio alle porte di casa dei membri del Comitato, le
minacce, il pestaggio di un ragazzo. Puglisi era cosciente dei rischi?
«Lui
aveva capito certamente da dove arrivava il messaggio. Noi facevamo
questi attentati per allontanare da Brancaccio don Pino e la gente che
lo appoggiava. Infatti un paio se ne andarono. Ma Puglisi continuava a
fare quello che aveva sempre fatto, parlare contro la mafia...».
Un delitto annunciato.
«Sì,
anche perché lui rimase solo. Secondo me, si poteva salvare. Se lo
Stato lo avesse protetto, ad esempio. E così successe quello che è
successo».
E arrivaste a quella sera.
«Lo avvistammo in
una cabina telefonica mentre eravamo in macchina. Andammo a prendere
l’arma. Toccava a me. Ero io quello che sparava».
Era nervoso, guardingo?
«No.
Era tranquillo. Che era il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo.
Spatuzza (un componente del commando che lo uccise, ndr) gli tolse il
borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me
l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto
impresso».
Il sorriso di un santo?
«Non ho esperienza di
santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel
sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so
spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato
nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio
fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti.
Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».
È vero che si vantò di essere l’omicida di Puglisi?
«È
assolutamente falso. Io non avevo assolutamente nulla di cui vantarmi:
se in Cosa nostra fosse stato consentito giudicare un omicidio, io
l’avrei criticato».
Quell’omicidio fece molto clamore, fin dal giorno dopo. Che effetto vi fece i giorni seguenti?
«Nessun effetto».
E le manifestazioni antimafia per le vie di Brancaccio, un mese dopo?
«Cominciammo
a capire che non era stata una cosa utile per noi. Anzi, aveva
peggiorato la situazione. Una specie di autogol. A quel punto abbiamo
scelto il silenzio. E poi cominciarono i problemi, e tra di noi, lo
commentavamo come una maledizione».
Cosa nostra rispettava i preti, quello era il primo omicidio del dopoguerra.
«Per
Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo
nascondeva. Non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno.
Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni».
Lei è a conoscenza di qualche latitante nascosto da sacerdoti?
«No, però si sapeva nell’ambiente, che in passato era avvenuto».
E la Chiesa di Puglisi?
«La Chiesa di Puglisi era una Chiesa diversa».
Ricorda le parole del Papa ad Agrigento contro i mafiosi, nel 1993?
«Vagamente,
io allora ero un mafioso. Mi toccò molto di più una lettera pubblicata
sul Giornale di Sicilia da alcuni giovani che mi invitavano al
pentimento».
Ma nell’ambiente di Cosa nostra che effetto fecero le parole del Papa?
«Si vociferava che la Chiesa cominciava ad essere diversa».
Le bombe in Laterano furono messe per questo?
«No. Era tutta un’altra storia. Rientra in una strategia stragista di Cosa nostra contro le istituzioni».
Lei
è accusato di un delitto orribile e odioso: il rapimento del figlio del
pentito Di Matteo, sequestrato per lungo tempo, ucciso e poi sciolto
nell’acido per ritorsione contro il padre.
«L’ho conosciuto bene
quel bambino. Madonna mia, era un ragazzo pieno di vita... Cosa nostra
mi ha tradito: mi avevano detto che lo dovevamo tenere per un paio di
giorni e basta, fino a quando il padre ritrattava. E invece... Ho fatto
cose che non si possono giustificare, ma questa... questa è stato il
motivo del mio pentimento. Non gliel’ho potuta perdonare»
Ci sono mafiosi religiosi in Cosa nostra?
«Il
novanta per cento dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati
diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad
ammazzare qualcuno. A me questa cosa mi dava fastidio: ma che aiuto ti
può dare Dio, che andiamo ad ammazzare?, gli dicevo io. Ho sentito dire
che Giuseppe Graviano qualche volta andava a messa. È gente che legge la
Bibbia. La Bibbia la leggevo anch’io, da latitante. Mi piaceva
leggerla. La leggevo allora e la leggo adesso da credente. Perché è
quando sei solo che cominci a riflettere. Perché loro ti inculcano
questa cultura: che tutto quello che fa Cosa nostra è giusto».
Che passi della Bibbia ama leggere?
«La vita di Cristo sulla terra».
Lei dice di essersi convertito.
«Vede,
io c’ho questa convinzione: che a me non mi crederà nessuno. Io sto
cambiando, devo cambiare, ma voglio che siano i fatti a far parlare me.
Mi piacerebbe essere a Palermo il 15 settembre per l’anniversario della
morte di Puglisi. Ma a me queste cose non piace dirle, perché penseranno
che sono un ipocrita. Lo Stato poi dovrebbe aiutare chi può cambiare.
In questo carcere, ad esempio, mi hanno negato persino un prete. Come si
fa a cambiare? Per cambiare bisogna essere aiutati. Per questo sono
molto grato a padre Mario, una persona squisita».
Padre Mario Golesano, il parroco di Brancaccio che ha sostituito Puglisi.
«Sì,
io gli devo moltissimo, non mi ha mai abbandonato. Lui mi ha scritto
per primo. Ho provato un’emozione intensa nel ricevere quella lettera.
Mi scriveva di quanto era bello sentire il pane profumato, faticato,
sudato, guadagnato con i sacrifici. Di sentire la gioia dei miei
bambini. La gioia che io ho tolto a tanti bambini. Il mio rammarico è
quello di aver tolto tanti padri ai loro figli».
Un profumo che a Brancaccio non sentì.
«Lì fin da bambini si comincia a sentire il fascino degli uomini di rispetto».
Lei ha scritto anche una lettera aperta al sindaco di Palermo, Orlando.
«Come
rappresentante della cittadinanza. Ho invitato chi è in Cosa nostra a
cambiare, a seguire lo stesso cammino che sto facendo io. Conosco i miei
coimputati e sono convinto che alcuni di loro potrebbero cambiare.
Anche se è difficile, perché Cosa nostra ti inculca che tutto è giusto,
che lo Stato è il nemico numero uno, che i magistrati sono dei mostri,
che Falcone e Borsellino sono i nemici numero uno di Cosa nostra».
Cosa nostra a Palermo è ancora potente?
«Non
vorrei che si finisse come a Napoli, in un gruppo di clan in cui il
primo che si sveglia spara. Almeno Cosa nostra manteneva l’ordine. Cosa
nostra in questo momento è in ginocchio. E l’arma è quella dei
collaboratori di giustizia. Chi lascia che vengano denigrati fa un
grosso sbaglio».
Francesco Anfossi