25/05/2013
Vincenzo Nibali. Le foto di questo servizio, copertina inclusa, sono dell'agenzia Ansa.
Vincenzo Nibali non correrà il Tour
de France, al quale aveva dedicato la stagione 2012, finendo terzo,
dietro agli inglesi “inediti” Wiggins e Froome. Per il 2013 ha
scelto il Giro, ha vinto il Giro, ha esaltato il Giro, ha fatto
vibrare la gente del Giro e il ciclismo italiano tutto. Oggi ancora
una tappa, l’ultima, tradizionalmente ”innocua”, da Riese Pio X
a Brescia, per festeggiare.
Nibali è stato sfortunato: una
bronchite gli ha tolto di corsa Wiggins, che aveva giurato di essersi
dato quest’anno alle strade italiane per vincere, non per preparare
il Tour. Sfortunato perché questo sontuoso Nibali, visto vittorioso
nella cronoscalata alla Polsa e poi sulla salitissima che porta sin
sotto alle Tre Cime di Lavaredo, meritava di avere il baronetto
inglese come avversario, come ulteriore stimolo e parametro, e
sicuramente poteva batterlo, stabilendo addirittura una nuova
gerarchia nel ciclismo.
Sì, perché Nibali non ha ancora 29 anni, è
integro, si è dosato sempre perfettamente dal 2005 del suo passaggio
al professionismo, creandosi una carriera calibratissima,
intelligente, con progressione regolare, con moto uniforme verso il
successo e adesso anche la gloria. Terzo al Giro d’Italia nel
201i0, secondo nel 2011. Settimo al Tour de France nel 2009, terzo
l’anno scorso. Primo nella Vuelta del 2010. Vincitore di prove a
tappe nobili, un Giro del Trentino e due Tirreno-Adriatico, compresa
quella di quest’anno. Non adatto alle corse di un giorno solo, si
difende statisticamente con un terzo posto alla Milano-Sanremo ed un
secondo alla Liegi-Bastogne-Liegi.
Al Giro aveva vinto prima di
quest’anno solo una tappa, la cronoscalata del 2011. In questo 2013
ha vinto contro il cronometro e poi in linea, ha vinto sempre in
salita, sotto la neve, nella tregenda atmosferica, nel miracolo umano
delle Tre Cime di Lavaredo con la strada fasciata di gente fachira
felice, nella sontuosità tecnica e atletica di una grande montagna
visitata dalla neve, dal vento, dal freddo. Altra sfortuna gli aveva
tolto venerdì il tappone di Gavia, Stelvio e Martello, annullato per
neve eccessiva, invincibile, anomalia relativa se si pensa
all’inverno che in tutta Italia sembra non avere data di scadenza.
E’ stato costretto a gettare tutto su un appuntamento solo, poteva
fallirlo, aveva il diritto di essere a priori angosciato
dell’ineluttabilità del momento, vincere e stravincere o deludere,
poteva sentirsi zavorrato da un’attesa generale che era per lui
obbligo di tagliare il traguardo da primo.
Nibali è siciliano di
Messina, sin troppo facile definirlo “lo Squalo dello stretto”.
In realtà è un tipo quasi dolce, sereno, tutto moglie e figlia.
Rispettato da tutti, lui che tutti rispetta. Mai impegnato a
evidenziare la sua origine geografica, rara nel ciclismo, per farsi
bello di essa, per esibire l’alibi di un handicap di radici
ciclistiche classiche. E’ il primo “terrone” vero che vince il
Giro, a meno di prender per buona, come valore e come geografia, la
vittoria nel 2007 dell’abruzzese Danilo Di Luca. Un altro che
Nibali ha avuto la sfortuna di avere compagno di strada in questo
Giro: perché, assumendo epo ancor prima del via, mettendo poi
nell’imbarazzo i suoi stessi dirigenti all’annuncio
dell’esclusione dalla corsa, Di Luca, già condannato per doping
nel passato e adesso a rischio di radiazione, ha offerto cibo buono
per gli avvoltoi che vedono il ciclismo ormai ucciso dalla chimica
proibita. E in qualche modo ha gettato ombra, la sua ombra, sulla
corsa rosa, costringendo Nibali a vincere anche con rabbia, per fare
scordare Di Luca, per rispondere a chi, in panciolle a casa, ha
deciso ormai che sono tutti poveri cretini quelli che, numerosissimi
sempre e quest’anno pià che mai, vanno sulle strade a veder
passare i corridori ovviamente tutti dopati, si spostano in massa
anche nella bufera di neve, spendendo in fatica, se pedalatori
anch’essi, o in benzina e spesso anche in ore di non lavoro, molto
più degli “sportivi” che vanno allo stadio per la partita di
pallone.
Nibali quest’anno è passato dalla
Liquigas all’Astana, la squadra dei petrodollari kazaki, guadagna
come un calciatore bravo di serie A, cioè tanto per un ciclista,
supererà i due milioni con i premi- che peraltro spesso vengono
divisi con i compagni di squadra, di fatica. L’Italia non ha più
sponsorizzazioni forti per trattenere i suoi migliori. L’Italia
sadomasochisticamente gioca al gioco della irreversibile decadenza
del ciclismo, quando questo sport non ha mai conosciuti i fasti
mondiali di adesso, con tanti soldi di tante economie forti o
emergenti, con la conquista ormai delle Americhe e dell’Australia e
dell’immensa Europa dell’Est, con i primi accaparramenti di
attenzioni e di partecipazione in Asia e persino in Africa, con la
lingua inglese diventata necessaria se si pensa che al Giro, dove
l’italiano e il francese bastavano eccome, hanno preso il via
corridori di 54 nazionalità differenti, incluso un cinese.
Nibali non meritava la tappa sospesa,
non meritava Di Luca.
Ma detto questo dobbiamo dirci che forse noi
non meritiamo Nibali: che è un faticatore puro e riservato, così
estraneo al lassismo fisico oltre che etico e gaglioffo di troppa
gente nostra di oggi, di quasi tutti noi. Adesso qualcuno cercherà
di spingerlo al Tour (il via il 29 giugno, il tempo per riposare ci
sarebbe), e magari gli chiederà insieme coraggio smodato e troppo
sacrificio. Ma secondo noi il Nibali che prende la maglia rosa e poi
la onora vincendo le due tappe più difficili della corsa tutta, il
Nibali che emette sbuffi di fatica santa, fonemi di gioia onesta, e
non proclami di forza, deve bastare assolutamente per l’entusiamo.
In fondo per questo Giro si entusiasmano in Colombia i fans di Uran
secondo e Betancour quinto, in Australia di Evans che ha già vinto
quasi tutto e che a 36 anni finisce terzo.
Ma attenzione: Nibali e non solo
Nibali. Scarponi , 34 anni, è quarto, sempre bene presente in
salita. E soprattutto due grandi tappe, compresa quella in Francia
del Galibier un po’ mutilato dal maltempo, sono andate a Giovanni
Visconti, nato casualmente a Torino ma sicilianissimo di Palermo, già
tre volte campione d’Italia, già vittima di una grave depressione
dalla quale è uscito pedalando, che in lingua italiese vuol anche e
soprattutto dire faticando.
Gian Paolo Ormezzano
Gian Paolo Ormezzano