05/06/2011
L'ex portiere della Cremonese e poi del Benevento, Marco Paoloni, al Tribunale di Cremona.
Lo scandalo scommesse si allarga, una quindicina di partite di Lega Pro, 7-8 di serie B, 3-4 di A per ora al vaglio degli inquirenti e l'Atalanta lì a metà del guado neo promossa in A, ma con le mani nella marmellata fin oltre il gomito forse di più.
La notizia è che sono saltate le regole del gioco, quelle delle scommesse legali prima, quelle del pallone di conseguenza, ma a monte sono saltate le regole del vivere civile. Perché se una radice ha quest'ennesimo scandalo del pallone, sta nella facilità con cui la sregolatezza penetra nelle nostre vite. Dove ci sono regole, è fatale, c'è qualcuno che prova a violarle per accelerare la corsa al facile guadagno. Succede ovunque, la differenza è che a casa nostra ciò accade nell'indifferenza generale. Siamo un Paese con un sistema immunitario addormentato, mancano gli anticorpi, e quando ci sono sono poco reattivi.
Davanti a un sospetto, spesso la parte pulita della società chiude gli occhi, si volta altrove, sceglie il quieto vivere anziché la scomodità della denuncia. La facilità con cui il trucco perverso penetra nel pallone è la medesima che consente alla criminalità organizzata di farsi strada nel Paese, penetrando nell'economia come un coltello nel burro. Poi si scopre che i due mondi non sono così distanti. L'inchiesta in corso ci sta dicendo che a fare affari con le scommesse clandestine e con le partite truccate sono anche le organizzazioni criminali che hanno denaro liquido e sporco da riciclare.
C'è di mezzo - nel piccolo del pallone e nel grande della criminalità con la C maiuscola, che finiscono per sfiorarsi - un nostro rapporto, molto italiano e molto distorto, con il concetto di regola, vissuta non come lo strumento che ci consente di vivere insieme in maniera ordinata, di guidare l'auto senza precipitare nel caos, di giocare a qualunque gioco senza finire in rissa, ma come una vessazione imposta dall'alto, come un'imposizione vissuta con fastidio.
C'è di mezzo insomma una cosa che si chiama senso civico, senso dello Stato, rispetto del diritto contro la prevaricazione.
Se chi normalmente si occupa di politica o di calcio deve sconfinare troppo spesso nella cronaca giudiziaria è perché i concetti di cui sopra sono labili, fragili, astratti al punto da dover essere sempre demandati ad altri: nella fattispecie alla magistratura ordinaria. Per reagire, per provare indignazione o magari disgusto abbiamo bisogno di una sentenza. E invece sarebbe più sano che ci bastasse il sospetto che qualcuno violi le regole del nostro gioco, si prenda gioco della nostra onestà e delle nostre emozioni.
Ma finché sugli spalti dei campionati ci sono striscioni che rimpiangono Moggi da quel senso civico siamo lontani anni luce.
Elisa Chiari