10/02/2013
Nadia Fanchini nel 2010, dopo l'operazione a entrambe le ginocchia (Ansa).
Una gara, d’accordo. Un successo, certo. Una piccolissima
delusione, anche, per quei 16 centesimi che separano all’ultimo Nadia Fanchini da
un discesa libera mondiale condotta tutta in testa. Ma più di tutto un atto di
riparazione del destino. Perché non è vero che le gare sono tutte uguali. Non è
neanche vero che è tutto solo un gioco. Non quando si hanno nelle orecchie urla
di dolore. A gennaio 2010 hanno fatto il giro del mondo le urla di Nadia
Fanchini che cadeva, rompendosi i crociati di entrambe le ginocchia. Dopo averli già ricostruiti da una parte e
prima di romperli di nuovo.
C’è tanta vita in quelle urla e troppo dolore in
quella vita per considerare tutto soltanto un gioco. E’ l’aspetto dello sport
d’alto livello che troppe volte tendiamo a dimenticare: il suo prezzo, il suo
scotto di dolore fisico da pagare, la sua traumaticità, ma anche la sua
spietata verità che non è mai in quei giorni metafora di vita, ma vita fino in
fondo.
L’argento di Nadia Fanchini oggi, che è stato oro per quasi
tutta la gara, è qualcosa che va oltre lo sport, qualcosa che può parlare anche
a chi di gare nulla sa e vuole sapere. Una storia che parla di dolore, di
fatica, di resistenza e di coraggio (perché ce ne vuole dopo tanto dolore a
sfidare la paura e la velocità in discesa libera di nuovo così).
Una storia che
a conoscerla, con le sue delusioni, con la paura mai nascosta di non farcela,
di non tornare come prima, parla a chiunque conosca la fatica di risalire dal
fondo e può regalare una speranza a chi sta temendo che tutto sia perduto. Sono
il bello dello sport giornate come questa, il suo essere simbolo universale,
che gli ridà senso e dignità anche in giorni in cui troppi scandali spingerebbero a
mollare tutto, perché non ci sono scandali che possano scalfire il significato del
dolore e del suo riscatto, con tutta la vita che si porta dentro.
Elisa Chiari