Sei Nazioni: rugbisti da legare

Il gioco più ruvido e corretto al mondo osservato e studiato dallo psichiatra Matteo Rampin.

04/02/2011
Quella palla ovale protetta come un neonato.
Quella palla ovale protetta come un neonato.

Tutto comincia con un libro: Andare avanti  guardando indietro, scritto per Ponte alle grazie da Mauro e Mirco Bergamasco con Matteo Rampin. Fin qui niente di troppo esotico, se non che Mauro e Mirco sono rugbisti d'alto livello e Matteo Rampin nella vita fa lo psichiatra. E non è che le due professioni siano naturalmente legate, a meno che...

Dottor Rampin,  se uno psichiatra scrive di rugby è perché, come pensano molti sedentari, per giocarci è utile avere, oltre al fisico prestante, qualche rotella fuori posto? 
    «La prova che Mauro e Mirco hanno qualche rotella fuori posto sta proprio nel fatto che hanno accettato di scrivere un libro assieme a me!».
 
Più seriamente, davvero la passione per questo gioco, fino a poco fa quasi estraneo alle nostre latitudini, ha radici nella parte più profonda di noi? 
    «Mischia e fango ci piacciono perché vi si gioca una partita in cui la palla non viene solo calciata o lanciata, ma viene anche tenuta stretta al cuore, come un bambino da accudire e da portare in salvo superando tutte le avversità: in questo ritroviamo un’eco ancestrale, qualcosa che ha a che fare con il doppio movimento della vita, che è sempre una commistione di tenere e dare, chiudere e aprire, rischiare e anelare alla sicurezza. Conta molto, poi, anche la questione della lealtà e dello spirito di squadra, che qui sono assolutamente centrali: se non ci si fida dell’altro, il gioco non progredisce, e così se non mettiamo l’altro nelle condizioni di potersi fidare ciecamente di noi; il pubblico lo percepisce, lo sente, e lo apprezza perché risponde al bisogno di verità che tutti abbiamo nel profondo. Nel rugby non c’è spazio per finzioni, simulazioni e sceneggiate».

Rugby sport rude e leale, di impatto e di fair play: non c'è contraddizione? 
    «Sì, ma è una contraddizione affascinante, che peraltro risponde a una logica ferrea: per lanciarmi nel mezzo di trenta uomini che non si risparmiano impatti e collisioni, devo essere sicuro che tutti si comporteranno in maniera assolutamente corretta; e viceversa, se tutti garantiscono serietà e galanteria, non ci sarà nessuna remora a usare tutta la forza necessaria. È utile ricordare che una cosa è la forza, un’altra la violenza: questa è la degradazione di quella. La forza controllata è l’unica espressione di forza che abbia un senso: in tutti i campi della vita è davvero forte solo chi riesce a graduare, e all’occorrenza inibire, la propria forza».

Non è che intervenendo rudemente su un campo di calcio si rischi poco, perché lì la stessa logica ferrea non si applica altrettanto rigidamente? 
    «Mi limito a una considerazione riguardo alla violenza sugli spalti: nel rugby non esiste e non è mai esista, probabilmente perché le persone non sono fisicamente separate e divise in fazioni, ma il pubblico si mescola fin dall’inizio, le persone si dispongono gomito a gomito anche se appartengono a tifoserie diverse. Secondo un noto principio psicologico, creare gruppi e fazioni fa scattare subito l’ostilità e l’aggressività; al contrario, quando le persone sono vicine, l’altro ci appare per quello che è: molto simile a noi. Questa somiglianza ci mostra quanto sia insensato attaccarlo solo perché la pensa diversamente».

Leggendo le sue riflessioni condotte con i fratelli Bergamasco si pensa alla rappresentazione della squadra di rugby come modello di società perfetta: lo è? 
    «Dire società perfetta sarebbe esagerato. La squadra di rugby, però, con i suoi tipi fortemente caratterizzati, ricorda un po’ una famiglia con i suoi diversi ruoli ma con la possibilità che ciascuno sostituisca qualcun altro, se bisogna. Si tratta, inoltre, di un gruppo molto coeso, che è reso tale dalle difficoltà che incontra (gli ostacoli da superare) e dal credere in uno stesso ideale o dal condividere uno stesso scopo (andare in meta). Non si tratta di retorica: la vicinanza umana che si rintraccia nel mondo rugbistico si estende fuori dal campo, e coinvolge tutti, parenti, amici, tifosi».

Nella parte più profonda, verrebbe da dire animale, di noi c'è l'istinto di sopravvivenza, una inclinazione naturale a risparmiarsi sofferenza, specialmente gratuita: com'è che chi pratica il rugby ama un gioco, in quanto tale non vitale, in cui va messo in conto un certo grado di dolore fisico? 
    «Per quanto riguarda la gratuità, direi che è proprio il fatto che si tratti di un gioco, e quindi di un’attività “inutile”, che rende questo e altri sport così importanti: lo sport, il gioco è un modo per ricordarci che non necessariamente tutto ciò che facciamo deve avere un fine economico o utilitaristico in senso materiale; giocare è inutile, ma siamo gli unici animali che continuano a farlo per tutta la vita, e questo vorrà pur dire qualcosa. Per quanto riguarda la sofferenza, invece, credo che questa sia un po’ il sale di questo sport: se non si fa fatica vuol dire che non si è dato tutto, se non ci si infanga vuol dire che non si è speso ogni attimo impegnandosi seriamente, se non si rimedia qualche botta vuol dire che si stava bluffando… ma, come detto, non si può bluffare quando ci si imbatte in quintali di avversari!»

Come spiegare tutte le cose che ci siamo detti, incluso il titolo del libro, a un pubblico indottrinato fin da piccolo a credere senza discutere che "la palla è rotonda" e che "quando si va avanti si guarda dove si mettono i piedi"? 
    «Che la palla sia rotonda non garantisce che vada dove vogliamo noi, e nel caso della palla ovale il concetto è ancora più facile da capire: ma da questa ulteriore difficoltà scaturisce la bellezza dell’imprevedibilità dei rimbalzi, che diventa un’occasione per improvvisare creativamente gesti e decisioni nello spazio di qualche centesimo di secondo. Il titolo del libro, Andare avanti guardando indietro, non significa affatto che il rugbista non guardi avanti: tuttavia, il suo sguardo è rivolto anche indietro. Vale a dire che dovendo passare il pallone solo all’indietro (è la regola principale del gioco) ogni atleta sperimenta un dato elementare: siamo davanti agli altri solo perché qualcuno ci sorregge, ci spalleggia, ci protegge. Senza l’apporto di tutto il gruppo, non saremmo capaci di fare nulla».

Che cosa comporta, dal punto di vista psicologico, dover passare all'indietro? 
    «Passare all’indietro ci obbliga a riflettere sul fatto che, una volta raggiunto il successo, dobbiamo ricordarci di chi è rimasto in posizioni arretrate, ed è proprio in quei momenti che dobbiamo “far girare il gioco” (o “far vivere la palla”, come dicono in gergo i rugbisti), cioè evitare di voler fare tutto da soli, altrimenti il gioco si ferma. Per far fruttare le ricchezze che abbiamo ricevuto, bisogna metterle in giro: e questo comporta il saper rinunciare all’egoismo e al narcisismo. Ecco perché il giocatore che realizza una meta non si esibisce in pagliaccesche sceneggiate, ma corre subito indietro, più volecemente ancora dei suoi compagni, quasi a volersi nascondere in mezzo al gruppo. Il rugbista non si monta la testa, perché è abituato a considerarsi parte di un tutto che lavora assieme. Nessun rugbista penserebbe di tenersi la palla per segnare a tutti i costi in prima persona, mettendo a rischio il gioco. Come scriviamo nel libro, “la palla, come la vita, non è fatta per essere trattenuta” o, per dirla meglio, “per avere bisogna dare”».

Elisa Chiari
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