Don Colmegna, digiuno per giustizia

Una giovane donna rom, denunciata per accattonaggio nel 2006, è stata capace di ricostruirsi una vita "regolare": ora è in carcere. Il racconto di un'ingiustizia

04/02/2013
Don Virginio Colmegna, fondatore della Casa della Carità
Don Virginio Colmegna, fondatore della Casa della Carità

«Digiuno fino a quando non l'avranno scarcerata». L'annuncio di don Virginio Colmegna è arrivato a margine della presentazione dell'appello "Carcere, diritti e dignità", promosso dall'associazione Antigone, Avvocati per niente, Asgi, Camera penaledi Milano, Centro ambrosiano di solidarietà e Osservatorio carcere e territorioMilano e destinato agli addetti ai lavori, ai politici e, soprattutto, alla società civile perché faccia tutto quanto possibile per la nascita di una nuova cultura della pena. La donna scelta come simbolo di una battaglia che riguarda in realtà tutto il sistema penitenziario italiano, si chiama Anna, è di etnia rom, ha 27 anni, 3 figli e una denuncia di accattonaggio risalente al 2006 di cui non sapeva l'esistenza: almeno fino a qualche settimana fa, quando ha scoperto di dover scontare una condanna a sei mesi nel carcere di Como. È accaduto tutto molto in fretta e a nulla è valso il fatto che in questi sette anni la donna avesse iniziato e consolidato un percorso di "rinascita". «Da cittadini è impossibile stare in silenzio di fronte a casi come questo: sottoscrivendo il nostro appello non si assume soltanto un impegno a parole. Bisogna tutti quanti spendersi per promuovere concretamente pene alternative alla detenzione, abolendo quelle leggi che hanno causato l'attuale sovraffollamento carcerario e depenalizzando i reati minori. Ho visto con i miei occhi le condizione disumane e degradanti in cui sono costretti a vivere gli uomini e le donne nel carcere di San Vittore a Milano, non si può, non si può...». 

Ed è qui che il messaggio di don Colmegna è un richiamo nei confronti della politica ad assumersi le proprie responsabilità, senza limitarsi a mettere "una toppa" qua e là, dettata solo dall'emergenza. In fondo, basterebbe attenersi all'articolo 27 della Costituzione che stabilisce come "Le pene non possono consistere in trattamenti al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". «La dimostrazione che il carcere non è sempre l'unica risposta possibile di fronte alla commissione di una reato viene proprio dalla storia di Anna: questa donna è stata capace, anche grazie all'aiuto delle persone, dei volontari che ha incontrato, di riprendere in mano la propria esistenza. Si è fatta aiutare: è venuta a vivere alla Casa della carità, ha preso la residenza a Milano, ha cercato e trovato lavori "regolari", ha mandato i propri figlia a scuola. Ha fatto tanta strada e oggi sono tre settimane che è in carcere...». Ma è possibile che Anna non sapesse che sulle sue spalle gravava un procedimento giudiziario? Sì, soprattutto se, come in questo caso, l'avvocato assegnatole d'ufficio nel 2006 non si è mai preso la briga di dargliene comunicazione, aggiornandola sullo stato della denuncia a suo carico per una presunta irreperibilità di Anna che invece don Colmegna assicura, documenti alla mano, non essere stata tale. «Questa donna incredibile non deve essere in carcere. Anzi, a mio avviso è l'emblema che in carcere, a volte, finiscono le persone sbagliate. La detenzione però non è l'unica forma di contenimento sociale possibile. Invece che gioire per il risultato ottenuto con una donna che in questi anni ha fatto un percorso splendido di maturazione e presa di consapevolezza, ci ritroviamo a soffrire per la sua carcerazione». Don Colmegna non si dà pace perché crede nelle pene alternative al carcere ma ribadisce che la necessità di un impegno a 360 gradi da parte di tutti: «Sia chiaro, nessuno vuole cancellare le pene: il carcere però deve costituire l'extrema ratio». 

Alberto Picci
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