10/12/2012
I volontari di Beati i costruttori di pace, a Sarajevo, sul ponte Vrbania.
Sarajevo, Bosnia
Il primo ricordo è stato per Gabriele Moreno Locatelli, il pacifista bresciano ucciso da un cecchino sul Ponte Vrbanja il 3 ottobre 1993. Mentre un vento gelido sferzava i volti dei 130 italiani giunti a Sarajevo
a vent’anni di distanza dalla “marcia dei 500”, si è svolto forse il momento più commovente dell’intera iniziativa “
Sarajevo: 1992 - 2012. La forza dell’amore e la tenerezza dei popoli durante la guerra”, organizzata dall’associazione di volontariato Beati i costruttori di pace. Il primo omaggio è stato proprio per lui, Gabriele Moreno Locatelli. Tra l’emozione generale, specie di chi con il giovane ha condiviso giorni e speranze durante il conflitto, il gruppo ha deposto delle bandiere della pace sul ponte, attorniato da un caotico e indaffarato traffico serale.
Da sinistra, monsignor Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, e don Albino Bizzotto, presidente di Beati i costruttori di pace.
«Siamo tornati a Sarajevo con quella che vuole essere la prima di una
serie di manifestazioni rispettose della storia, di tutta la storia»,
ha spiegato don Albino Bizzotto,presidente di Beati i costruttori di pace. «La
marcia dei 500 vent’anni fa, nel dicembre 1992, in una Sarajevo sotto
assedio, è stata l’esperienza inedita di interposizione nonviolenta
della società civile, di un coinvolgimento personale e collettivo in un
nuovo modo di entrare e stare nel conflitto armato. Abbiamo
inaugurato forme di organizzazione di democrazia diretta con il metodo
del consenso fondato sulla fiducia collettiva: cercavamo di fermare la
guerra senza l’uso delle armi, con la capacità di suscitare nuove
relazioni di solidarietà. Di tutto questo, vent’anni dopo, non esiste
narrazione storica, non esiste valutazione politica; c’è solo memoria
frammentata delle persone e dei gruppi direttamente coinvolti. Il
nostro, però, non vuol essere soltanto un guardare al passato, ma una
forma di riflessione sull’oggi: lo stato generale di crisi in cui
viviamo può farci cadere nella negazione dell’aiuto agli altri e nel
concentrarci solamente su noi stessi».
A Sarajevo sono arrivate centotrenta persone, donne e uomini da tutta Italia, giovani
studenti universitari, famiglie, ultrasessantenni accompagnati dai
nipoti ai quali possono raccontare dal vivo cos’è stata la grande
mobilitazione di solidarietà durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Pronti
per prestare nuove attenzioni alla popolazione, anche in risposta
all’appello del vescovo ausiliare della città monsignor Pero Sudar, che
ha accolto i volontari con gratitudine: «È importante per noi
abitanti di Sarajevo ricordare chi è entrato tra noi con azioni audaci,
mentre tutti volevano scappare. Ma se allora c’era l’esigenza di un
certo tipo di solidarietà, oggi viviamo altri guai e continuiamo ad
avere bisogno di simpatia, appoggio, di un messaggio di pace e umanità.
Prima della guerra ritenevo che in certe situazioni l’uso della forza
potesse servire ed essere consentito, e ho espresso questa mia
convinzione anche pubblicamente. Durante il conflitto ho sperimentato il
contrario: con la guerra non si costruisce, ma si distrugge anche ciò
che prima si possedeva. In quegli anni la nostra città è diventata per
noi un carcere; eravamo assolutamente isolati, ci sentivamo abbandonati.
L’arrivo di 500 persone in quel momento buio per condividere la nostra
condizione ci è sembrata un’azione da pazzi. Ma anche in carcere c’è
stato qualcuno che ci ha recato vista… Non ci servivano solo viveri,
avevamo necessità anche di altri messaggi; ed è stata proprio la
solidarietà che ci ha permesso di sopravvivere».
In questi giorni, nella scuola cattolica multietnica in cui i
volontari sono ospitati, è stata allestita una mostra sul servizio
postale che Beati i costruttori di pace ha garantito per tutti gli anni
della guerra, da e per Sarajevo, attraverso volontari sempre in
azione. Si è così consentito un servizio che ha mantenuto il legame tra i
familiari e gli amici sparsi nel mondo e chi non era riuscito a
scappare dalla città. «Io facevo il postino a Sarajevo - racconta il
bolognese Maurizio Cucci, tornato nella capitale con il gruppo -.
Giravo per la città in cerca delle strade e degli indirizzi, cercando
di evitare i rischi, coadiuvato da alcune persone del posto. Si
percorrevano anche 15 chilometri a piedi per consegnare una busta, ma è
stato il periodo più bello della mia vita, l’affetto della gente per noi
era grande».
Cinzia Agostini