29/11/2010
Un tiro libero lungo un oceano sperando di fare canestro. Si potrebbe sintetizzare così l'avventura di Danilo Gallinari, dal lodigiano a New York con una palla a spicchi come bussola.
Il suo cognome dice che aveva un destino segnato: suo padre Vittorio aveva scritto con Mike D'Antoni e Dino Meneghin un pezzo di storia della pallacanestro milanese quando Danilo non era nato. Ci sarebbe stato di che restarne schiacciati. Ma a uno che cresce fino a 2 metri e 8 svettare viene naturale.
Di qui a decollare in Nba però ne corre. Eppure sta succedendo. Danilo è l'ala dei New York Knicks e la sua fama di tiratore infallibile in lunetta sta facendo il giro del mondo.
Gallinari, suo padre, Meneghin e D'Antoni continuano a fare squadra attorno a lei, che effetto fa? Si rende conto di che che pezzo di storia ha attorno?
«Mio padre vabbè è mio padre, Dino è il presidente della Federazione italiana e siamo sempre in contatto per via della Nazionale, D'Antoni è il mio allenatore. Sono il mio presente, ma anche un passato che non se n'è mai andato da casa mia sono cresciuto con i video delle loro partite».
Quanto è presente la storia della sua famiglia nel rapporto con D'Antoni?
«Molto, il contatto tra mio papà e Mike è una situazione particolare, sono stato fortunato ad arrivare a New York, la presenza Mike è preziosa per me».
Tutti i cestisti sognano l'America, lei c'è arrivato a nemm'eno vent'anni e ha conosciuto il pregiudizio antieuropeo dell'Nba. Com'è stato l'impatto e com'è ora la sua America dopo tanti tiri nel cerchio?
«All'inizio non è stato facile, anche se il rapporto con gli europei sta migliorando, ormai sono molti in Nba e poi io avevo in corso una sfida personale: volevo dimostrare di essere all'altezza di giocare in questo campionato, credo di esserci riuscito in questi due anni e spero di continuare a farlo in futuro».
E' davvero così diversa la pallacanestro americana?
«Sì, si giocano molte più partite e le regole sono diverse, devi adattarti ma è sempre pallacanestro».
Una pallacanestro più fisica però?
«Sì, rispetto all'Europa dà più spazio alle qualità atletiche però è minore il contatto fisico con il proprio difensore. All'inizio ho avuto problemi alla schiena, dopo l'operazione sono passati. Devo solo avere riguardo e costanza nel fare gli esercizi particolari che mi vengono consigliati per prevenire altri problemi».
E' difficile saltare dalla bassa lombarda a New york o è davvero tutto un sogno?
«per me non è stato difficile, ho iniziato a vivere fuori casa a 14 anni, ho cambiato tante scuole, tanti amici, sono uno che si adatta facilmente ai cambiamenti. Poi credo che New York affascini chiunque l'avvicini».
Che cosa l'affascina in particolare?
«La sua grandezza, la quantità delle persone, il suo non dormire 24 ore su 24, l'opportunità di conoscere il mondo nelle sue diversissime persone».
Va bene essere abituati ai cambiamenti, ma tra Pavia e new York ne corre...
«Pavia è stata casa per un po', poi c'è stata Milano, ma per chiunque arrivare a New York è un'esperienza grandiosa».
C'è qualcosa cui ha fatto fatica ad adattarsi?
«Un po' il ritmo nella pallacanestro, è complicato all'inizio passare dall'una/due partite a settimana italiane alle partite quasi quotidiane in Nba, non ci sono giorni di riposo, non c'è mai pausa e a volte arrivi in campo mentalmente stanchissimo».
Anche la popolarità della pallacanestro è molto diversa...
«C'è molta pressione, c'è un mondo di media che ti tiene sempre gli occhi addosso, la stampa di New York è la più critica. Altre squadre hanno due o tre giornalisti noi 15 o 20 ogni fine partita. Non è facile adattarsi, ma se ci riesci a New York poi ci riesci ovunque».
La critica più cattiva e la più lusinghiera?
«Le più dure all'inizio quando mi infortunai alla schiena e dicevano che, come molti europei, non ero pronto fisicamente per affrontare l'Nba, un giocatore soft, non pronto a sostenere una stagione. La massima soddisfazione aver trasformato le critiche in applausi».
Tra le occasioni di questa intervista c'è il progetto Vis per portare a scuola i bambini angolani cui lei fa da testimonial. La pallacanestro le ha fatto cambiare tante scuole. In questo peregrinare ha avuto o perso?
«Soltanto avuto, e molto. Sono stato fortunato, ho conosciuto persone diverse che mi hanno fatto crescere».
Studia ancora Filosofia?
«Ho fatto due anni di Scienze umane e filosofiche alla Cattolica, ma l'Nba ha forzatamente interrotto il percorso. Troppo complicato continuare da qui».
In questa avventura solidale ha un compagno di squadra di nome Rino Gattuso, che cosa avete in comune?
«Siamo entrambi milanisti anche se lui gioca e io tifo, abbiamo questo progetto che ci sta a cuore, sappiamo bene che il nostro esempio è molto importante».
Che cosa ci vuole per essere buoni tiratori di liberi?
«Concentrazione, bisogna instaurare un rapporto personale con il canestro, solo tu e lui e il vuoto attorno anche se magari c'è un caos infernale».
Domanda da un milione di dollari: perché nonostante Bargnani, Belinelli e Gallinari in Nba, la nazionale italiana fatica?
«Perché non hanno ancora, per inforutuni alternati, giocato assieme in Nazionale. Speriamo che questa sia l'estate buona, anche se servirà un periodo di rodaggio, perché non basta un minuto per trovarsi e giocare insieme come una squadra».
Disse: vado in America per capire in che cosa i miei miti sono più grandi di me. L'ha capito?
Sì, l'ho capito e mi sento fortunato per questa esperienza».
I miti restano tali anche quando si diventa grandi giocatori, o da lì in poi si gioca alla pari?
«I miei miti si sono ritirati non posso giocarci contro e restano miti. Ma giocare contro i migliori del mondo anche ora significa crescere e capire come avvicinarli».
Che cosa le manca per avvicinarli?
«Vittorie, titoli. Spero di vincere qualcosa di importante in Nba e in Italia con la Nazionale. penso di aver raggiunto il mio sogno e quella di tutti i ragazzi che giocano a pallacanestro».
Che cosa le manca di casa?
«Graffignana il mio paese, i miei amici, il mio fratellino, i miei genitori».
Che cosa deve alla sua famiglia?
«Moltissimo, se non tutto. E' grazie a loro se sono qui. E' una famiglia molto presente»
Anche a questa distanza?
«Sì, fanno il possibile per venire a trovarmi alternandosi, nonostante il lavoro e il fratellino che va a scuola».
Che cosa teme nella vita?
«Per ora niente».
E in campo?
«Assolutamente niente».
Come si immagina da grande?
«Ancora con il pallone a spicchi, ma con l'aggiunta di una famiglia».
Sogna pallacanestro la notte?
«Sì, spesso. Ma fino adesso non sono mai stati incubi».
E a occhi aperti, a proposito di pallacaenstro?
«A occhi aperti bisogna essere realisti, purtroppo, è più difficile sognare».
Realisticamente dove vorrebbe arrivare?
«Spero di vincere un titolo Nba, un titolo in Italia e un Europeo con la Nazionale».
Elisa Chiari