17/11/2012
Un gruppo di insorti afghani. Foto Reuters.
Cosa sappiamo davvero di queste «guerre lontane»? Cosa pensano e come sono informati gli italiani? Quanto spazio riservano i media a questi temi? E soprattutto, cosa può fare ognuno di noi, e come?
Paolo Beccegato, direttore dell’Area Internazionale di Caritas Italiana, e Walter Nanni, responsabile dell’Ufficio Studi, hanno spiegato che “Mercati di morte” cerca di rispondere a questi – e altri – interrogativi.
Nel sintetizzare i risultati della ricerca, Beccegato ha detto che «Caritas, fedele al suo ruolo pedagogico, insieme ai due importanti media cattolici, intende offrire strumenti di osservazione, conoscenza e sensibilizzazione sulle grandi emergenze mondiali, ma anche piste di impegno personale e comunitario nella ricerca di possibili risposte ai disagi e ai conflitti che sono da queste generati».
Cosa è emerso dal Rapporto? I due responsabili di Caritas hanno sottolineato che vi sono luci e ombre, quanto alla conoscenza che gli italiani hanno dei conflitti nel mondo. Una conoscenza comunque tuttora scarsa.
Il sondaggio indica che prevalgono, nel ricordo collettivo dell’opinione pubblica, i teatri di guerra che hanno coinvolto i Paesi occidentali: Afghanistan e Iraq (46 e 37% del campione) e i nuovi conflitti della Primavera araba (ad esempio la Libia, al 37%).
Ma sono ancora tanti i “conflitti dimenticati”: la stessa guerra siriana – ancora nel luglio scorso, momento di rilevazione del sondaggio della Swg – veniva ricordata solo dal 10% degli intervistati. Quelle africane sono presenti nella memoria e nella coscienza solo di una esigua minoranza degli italiani. Appena 8 su cento ricordano il Darfur. E, addirittura, uno su cento il Congo. Per non parlare di Pakistan, Libano o Cecenia menzionati dal 2% degli intervistati.
Ancora oggi, la metà degli italiani apprende dalla televisione le notizie sulle guerre nel mondo. La radio è indicata come principale fonte informativa sui conflitti solamente dal 29%, preceduta sia dai quotidiani (67%) che dalla stampa periodica (33%). Rispetto al primo sondaggio (2001), è fortissimo l’aumento di Internet, principale fonte informativa per il 15% del campione.
Quanto alla gestione delle crisi, il 67% degli intervistati ritiene che non si possa prescindere da una politica condivisa a livello internazionale e il 71% degli italiani è a favore di un rafforzamento dell’Onu (in lieve calo: nel 2004 era l’80%). E ancora, il 13% del campione è a favore dell’intervento militare nei contesti di crisi, mentre il 10% propende verso un approccio umanitario, finalizzato alla fornitura di aiuti concreti alle vittime ed ai rifugiati. Aumentano gli sfiduciati: il 7% ritiene giusto non intervenire e lasciare che le crisi si risolvano localmente risparmiando soldi e tempo (erano il 2% nel 2001).
È stato sottolineato che dal sondaggio, rispetto alle tre edizioni passate, emergono segnali nuovi e positivi. In generale, la conoscenza dei singoli conflitti appare in aumento. Sono di meno gli intervistati che non riescono a fornire nemmeno una risposta sulle guerre in corso che ricordano (dal 20% del 2008 siamo passati al 12% del 2012).
La parola “guerra” continua a evocare principalmente immagini di morte e distruzione (75%). Tuttavia, rispetto alle precedenti rilevazioni, si aggiunge il tema delle speculazioni economico-finanziarie, inteso nella duplice funzione di causa-effetto dei nuovi conflitti (12% del campione).
Vittime della carestia in Somalia, nel 2011. Foto AP.
Cresce nel corso degli anni la percentuale di coloro che considerano la guerra un “elemento evitabile” (79%) e non più ineluttabile, ovvero una condizione da superare con il progresso culturale.
È molto alta, peraltro, l’importanza attribuita dagli italiani ai fattori naturali ed energetici nel determinare situazioni di conflitto armato: il 96% di risposte. Anche per quanto riguarda i fenomeni di speculazione finanziaria, tra cui l’aumento dei prezzi del cibo, tra gli italiani è cresciuta la consapevolezza e c’è un’elevata soglia di allarme.
Infine, il ruolo e alla qualità dei media: complessivamente, nel giudizio degli intervistati, la qualità dell’informazione su guerre e conflitti internazionali sembra essere leggermente migliorata (24% nel 2008, 26% nel 2012). Forse per merito della rete Internet, che ha senza dubbio esteso il campo informativo degli italiani su temi poco presenti nell’arena mediatica e nella stampa generalista.
Riguardo alle cause dei conflitti, le analisi del libro “Mercati di morte” hanno evidenziato che risulta sempre più rilevante nello scatenarsi di un conflitto le questioni legate «all’accaparramento di risorse strategiche (petrolio, acqua, terra)», come pure «le acute tensioni che si generano nelle relazioni tra creditori e debitori all’interno del mercato internazionale».
«Centrale», continua lo studio, «appare a riguardo il tema delle risorse naturali ed energetiche. Negli ultimi anni, la disponibilità di risorse è divenuto il fattore scatenante di nuovi conflitti internazionali ed interni. I primi due beni primari a essere colpiti da questi fattori di crisi sono acqua e cibo. Sono 145 le nazioni nel mondo che devono condividere le proprie risorse idriche con altri Paesi e utilizzano bacini idrici internazionali (263 in tutto il mondo). Negli ultimi cinquant’anni, la condivisione forzata dei bacini ha prodotto 37 conflitti violenti. Oltre cinquanta Paesi, nei prossimi anni potrebbero entrare in dispute violente sulla gestione di laghi, fiumi, dighe e acque sotterranee».
Sulla questione degli aumenti del cibo (raddoppiati negli ultimi 5 anni) e delle materie prime energetiche (il petrolio costa quasi il doppio rispetto al 1982), il Rapporto sottolinea che «la principale causa degli aumenti risiede nella “finanziarizzazione del mercato delle commodities”, ossia nel ruolo giocato dagli speculatori e dai mercati finanziari mondiali nel plasmare le politiche fiscali delle potenze mondiali e, perciò, il panorama macroeconomico dentro al quale ogni economia è costretta a muoversi».
«Le conseguenze sui Paesi a reddito basso e medio-basso delle evoluzioni dei prezzi sono state ovviamente negative», conclude la ricerca. «In particolare, la crisi alimentare esplosa nel 2008 e l’aumento del prezzo dei prodotti alimentari in tutto il mondo, hanno contribuito all’esplodere di vari conflitti, quali le primavere arabe e la guerra civile in Costa d’Avorio, e hanno provocato scontri e rivolte ad Haiti, in Camerun, Mauritania, Mozambico, Senegal, Uzbekistan, Yemen, Bolivia, Indonesia, Giordania, Cambogia, Cina, Vietnam, India e Pakistan».
Luciano Scalettari