18/12/2010
A giorni di distanza dalla conclusione della Conferenza sul clima promossa dalle Nazioni Unite in Messico, a Cancun, si possono tirare le somme con maggiore
lucidità.
Da una parte si può dire che i Governi hanno scongiurato il
fallimento totale, concordando un pacchetto di decisioni che saranno la base
per il sostegno di ulteriori negoziati nel corso del prossimo anno, con
l’obiettivo di raggiungere un risultato finale in occasione della Conferenza
delle Parti di Durban, Sudafrica, nel 2011, appunto.
Ma il bicchiere è forse più mezzo vuoto che mezzo pieno: a
Cancun era necessario trovare una soluzione alla crisi climatica, invece si è
arrivati ad una mediazione al ribasso.
L'Unione europea non ha giocato un ruolo leader,
nascondendosi dietro l'inerzia di altri Paesi e utilizzando i negoziati sul
clima per promuovere l'espansione del mercato del carbonio.
I firmatari del Protocollo hanno semplicemente riconosciuto
in modo più fermo la necessità di ridurre le emissioni in misura compresa tra
il 25 e il 40 per cento entro il 2020 e che è necessario fare molto di più per
raggiungere l’obiettivo condiviso della limitazione dell’aumento della
temperatura media complessiva del pianeta che non deve superare i 2 gradi. Eppure, secondo Susann Scherbarth, di Friends of the Earth,
il pacchetto adottato potrebbe mettere il pianeta sulla buona strada per un
aumento catastrofico della temperatura fino a 5 gradi.
Positivo l'accordo per la creazione del Green Climate Fund,
un fondo per far decollare l’economia verde nel mondo con 100 miliardi di
dollari l’anno, gestito dalla Banca mondiale, ma non basta. «I Governi ora hanno bisogno di identificare fonti di
finanziamento innovative, come
un sistema di prelievi imposti al settore internazionale dei
trasporti aerei e marittimi, attualmente non regolamentato, che sarebbe rivolto
all’8 per cento delle emissioni globali e simultaneamente sarebbe in grado di garantire
miliardi di dollari di finanziamenti di lungo termine», commenta Mariagrazia
Midulla responsabile clima del Wwf Italia.
Le misure più importanti sono ancora in dubbio, il futuro
quadro normativo non è chiaro, e manca l'impegno vincolante a profondi tagli
alle emissioni per i ricchi paesi e industrializzati, mentre la Banca mondiale
mantiene un ruolo nella gestione dei finanziamenti per il clima, e continua la
spinta alla commercializzazione dei crediti di carbonio.
«Il mercato del carbonio non è la soluzione. L'Emission trading system messo in campo dall'Unione europea non è stato in grado di
ridurre sostanzialmente le emissioni, mentre ha bloccato misure ben più
efficaci. Anche sul piano Redd (riduzione delle emissioni da deforestazione e
degrado forestale) è stato adottato un linguaggio ambiguo, che non scioglie i
nodi fondamentali, che possono fare di questo programma una leva per la
protezione delle foreste, o possono farne un motore della deforestazione e
dell'espropriazione delle terre indigene», commentano all'associazione
ambientalista Terra!
Dal canto suo, Greenpeace punta il dito contro i Paesi contrari al rinnovo
del Protocollo di Kyoto, ovvero Stati Uniti, Giappone e Russia.
«Gli Usa sono arrivati con impegni deboli per ridurre i gas
serra e, nonostante siano stati per lungo tempo il principale Paese per
emissioni di gas serra, hanno affossato diverse parti importanti degli accordi,
mettendo fortemente in discussione il risultato», afferma Wendel Trio, di
Greenpeace international.
La sintesi forse più efficace ce la offre Vincenzo Ferrara
(Enea), fisico dell’atmosfera, che dal 1992 al 2006 ha rappresentato l'Italia
tra i climatologi mondiali: «Si è discusso e si è deciso su cose collaterali
senza avere nessuna idea di quello che sarà il futuro o i futuri trattati sul
clima. È come stabilire come saranno le maniglie delle porte di una casa di cui
manca il progetto». D'altronde era inevitabile, visto che dopo la Conferenza del 2009 svoltasi in Danimarca, a
Copenhagen, i Governi erano venuti a Cancun con le ossa rotte, già sapendo che
un vero accordo vincolante - se mai si raggiungerà - verrà discusso nel 2011 in Sudafrica.
Gabriele Salari