Generali sì, mercanti d'armi no

La commissione Difesa del Senato emenda il progetto di riforma del ministro Di Paola: introduce più trasparenza e controlli. E il divieto alle "stellette" di vendere sistemi d'arma.

25/10/2012

Il ministro della Difesa non potrà vendere armi nel mondo. Di intermediatori ce ne sono già abbastanza. Il ministro della Difesa si dovrà accontentare di ordinarle e comprarle. Venderle no. Almeno questo la commissione Difesa del Senato ce lo ha risparmiato. Non vedremo uomini con le stellette girare il mondo con in mano il catalogo delle armi tricolori.

     L’idea introdotta dall’ammiraglio-ministro Giampaolo Di Paola nel progetto di riforma delle Forze armate avrebbe consentito ai vertici militari di accrescere a dismisura il proprio ruolo e il proprio potere nel mercato delle armi alimentando un gioco perverso di interessi in un mondo dove, come sappiamo, girano montagne di soldi pubblici.

     La stessa norma avrebbe anche autorizzato i generali a lanciarsi in un vasto programma di ammodernamento degli arsenali svendendo le armi in dotazione e investendo i proventi nell’acquisto di nuove. “Vendo il vecchio Iphone e mi compro l’ultimo modello” avrà pensato l’ammiraglio Di Paola. Ma con le armi non si scherza e i senatori della commissione Difesa hanno sentito il dovere di dire no.

    Anzi. Da ora in avanti ci dovranno essere nuove regole. Con un lungo e articolato emendamento al disegno di legge delega 3271, la commissione Difesa del Senato ha stabilito che attorno ai programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma e al bilancio della Difesa ci dovranno essere più trasparenza e più controlli parlamentari.

     Ogni anno il ministro della Difesa dovrà presentare alle Camere il quadro generale delle esigenze operative delle Forze armate, comprensive degli indirizzi strategici e delle linee di sviluppo capacitive, nonché l’elenco dei programmi d’armamento e di ricerca in corso e il relativo piano di programmazione finanziaria, indicante le risorse assegnate a ciascuno dei programmi per un periodo non inferiore a tre anni, compresi i programmi di ricerca o di sviluppo finanziati nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico.

     Nell’elenco dovranno essere indicate anche le condizioni contrattuali e le eventuali clausole penali. Il riferimento all’amara vicenda degli F35 è evidente. Per anni il ministro della Difesa ha sostenuto che il programma di acquisto dei nuovi cacciabombardieri non si può cancellare perché si dovrebbero pagare delle penali troppo alte. Poi i pacifisti dimostrano che non è vero e che non è prevista alcuna penale. E Di Paola è costretto ad ammetterlo.

     Un po’ come è accaduto per i costi degli F35. Questa volta a smentire clamorosamente il ministero è stato il generale Claudio  Debertolis, segretario generale della Difesa: gli F35 non costano 80 ma 127 milioni di dollari. E stiamo parlando solo dei primi cacciabombardieri perché noi ne vogliamo comprare addirittura 90 e i costi sono ovviamente destinati a lievitare ancora.

     Che ci sia poco da fidarsi di quel che dicono i vertici della Difesa è confermato anche dalla triste storia dei posti di lavoro, le cosiddette ricadute occupazionali. «Comprare gli F35 porterà alla creazione di 10.000 posti di lavoro», aveva detto e ripetuto il ministro davanti al Parlamento. Ma ad oggi gli occupati nella fabbrica di Cameri (che ci è già costata 800 milioni) sono un centinaio e i nuovi assunti poche decine.

     C’è di che riflettere. Le nostre Forze armate hanno bisogno di una riforma radicale. Non solo perché c’è la crisi e non ci possiamo più permettere di comprare cacciabombardieri mentre i poliziotti sono costretti a manifestare contro i tagli alla sicurezza dei cittadini. Ma anche perché il mondo sta cambiando profondamente e noi non possiamo continuare con le vecchie, anacronistiche pratiche del passato.

     Il nuovo Parlamento, e ci auguriamo una nuova classe politica, dovrà fare questa riforma. Ai senatori che nei prossimi giorni dovranno esaminare il disegno di legge Di Paola spetta il compito di continuare il lavoro della commissione Difesa cancellando, per esempio, la norma odiosa che impone ai Comuni colpiti dalle calamità naturali di pagare l’intervento dell’Esercito, impedendo che a pagare le ambizioni dei nostri generali siano ancora una volta i più giovani, sottoposti al precariato.

Flavio Lotti, coordinatore nazionale Tavola della Pace
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Postato da DOR1955 il 25/10/2012 18:47

Egregio sig. Andrea, se l'Italia si fosse adeguata agli standard europei, in tutti i settori, probabilmente ad oggi non avremo un rapporto debito/Pil del 126%, non avremo una disoccupazione (reale) al 14%, non avremo una evasione-elusione-corruzione-interessi di mafia e altro, per un totale di circa 400 miliardi di euro l'anno, non avremo il fenomeno dei "cervelli in fuga". In compenso, ad oggi, potremmo avere uno spread con la Germania non a circa 330 a 1 ma 1 a 330. Non cambieremo mai. Purtroppo.

Postato da Andrea Annibale il 25/10/2012 16:23

L’importante è che non si capisca nulla. Zero in trasparenza sul mercato delle armi. L’aspetto cruciale: quante e quali armi produciamo, a chi le vendiamo? Quante e quali armi compriamo e da chi? E’ vero o non è vero che il bilancio del Ministero della Difesa va quasi tutto in stipendi ad una pletora mastodontica ed inutile di ufficiali e sottufficiali assolutamente eccessiva? Chi ha interesse ad Forze Armate deboli ed inefficienti? Ora scopriamo che le armi da vendere e da acquistare le devono decidere i politici e non i tecnici. Meglio sarebbe una Commissione mista di tecnici e politici. I primi valutino gli aspetti tecnologici ed i secondi gli aspetti di bilancio e di opportunità, appunto, politica. E poi: come funziona negli altri Paesi europei? Non possiamo adeguarci agli standard europei di difesa strategica? E non possiamo cercare l’integrazione con l’Europa anche in questo settore? Facebook: AAnnibaleChiodi; Twitter: @AAnnibale.

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