11/05/2012
Preghiere palestinesi, all'esterno del palazzo della Croce Rossa a Gerusalemme, a sostegno dei familiari in sciopero della fame e detenuti in Israele (Reuters).
da Gerusalemme
“L’esercito israeliano ha arrestato 17 palestinesi ricercati in Cisgiordania”. La notizia compare stamattina, come molto spesso succede, tra le informazioni in breve sul sito del più importante e diffuso quotidiano d’Israele, Yediot Ahronot. Nulla è cambiato, dunque, nella politica di sicurezza di Tel Aviv, neanche in queste ultime settimane, segnate dal più imponente sciopero della fame dei prigionieri palestinesi detenuti negli istituti di pena israeliani. Almeno 1600, stimano le autorità carcerarie. Forse di più.
Digiunano non solo per le condizioni in cui vivono, dalle restrizioni sempre più evidenti delle visite delle famiglie alle cure mediche considerate insufficienti. Dal 17 aprile, dal giorno che i palestinesi dedicano ai prigionieri, digiunano soprattutto contro la detenzione amministrativa. Una pratica consolidata, frequente, che negli anni ha portato in cella migliaia di palestinesi, dalla Cisgiordania, da Gaza, da Gerusalemme est.
Vengono arrestati e tenuti in prigione senza un processo, e soprattutto senza accuse: un limbo in cui le autorità militari israeliane tengono i detenuti per cercare le prove necessarie per istruire il fascicolo. Un limbo che può durare anni, con un semplice rinnovo di sei mesi in sei mesi.
Ce ne sono trecento, adesso, di palestinesi in detenzione amministrativa. Carcere preventivo, si sarebbe detto in Italia. Le fonti ufficiali israeliane dicono che il numero sia molto diminuito, rispetto agli anni precedenti, quando si arrivava anche a 1500 detenuti in via cautelare. Anche quei trecento, però, sono troppi, per le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. Soprattutto quando diventano – con un digiuno collettivo – una questione scottante.
Lo sanno bene le autorità israeliane, che già una settimana fa prevedevano proteste e denunce da parte di paesi europei e organizzazioni internazionali. Così è stato. Ha protestato l’Unione Europea, e ieri è sceso in campo anche Ban Ki Moon perché il tempo stringe. Ci sono due detenuti che rischiano di morire, Bilal Diab e Thaer Halahle. Digiunano da 73 giorni. Almeno altri otto sono in condizioni critiche. Digiunano da oltre quaranta giorni, altri da sessanta.
Nell’establishment israeliano della sicurezza, che nelle ultime settimane ha dedicato alcune riunioni alla “questione prigionieri”, si comincia a riflettere sulla detenzione amministrativa. Lo ha fatto sapere un funzionario a un giornalista di Haaretz. Secondo l’indiscrezione, il ministro della sicurezza pubblica, Yitzhak Aharonovitch, avrebbe sostenuto che Israele “deve ridurre l’utilizzo della detenzione amministrativa”. “Dobbiamo essere sicuri di fare un uso adeguato della detenzione amministrativa, secondo le necessità”, avrebbe detto il ministro.
Nessuna marcia indietro, dunque. Piuttosto, un ‘uso adeguato’ della detenzione amministrativa. Il significato è chiaro: Israele non mette in discussione la sua politica di sicurezza nei confronti dei palestinesi che, in particolare durante e dopo la seconda intifada, è stata gestita privilegiando il secondo termine (sicurezza) rispetto al primo (politica). I palestinesi sono una questione di sicurezza, per Israele. Un atteggiamento che, secondo Tel Aviv, spiega anche ciò che le autorità militari e politiche hanno fatto sul terreno, dal Muro di separazione ai checkpoint, dalle strade separate alle barriere. Sino agli arresti dei palestinesi, una pratica che ha portato in carcere – stimano le associazioni dei detenuti – oltre settecentomila uomini, donne, minori dal 1967 in poi.
Il primato della politica, dunque, ha ceduto il passo da anni al primato della sicurezza. O anche della mano pesante, quando per esempio si devono gestire le manifestazioni settimanali contro il Muro in alcuni paesi della Cisgiordania, o le fiammate di tensione nei quartieri di Gerusalemme est dove aumenta la presenza dei coloni israeliani radicali. La differenza da registrare, rispetto al prima, non è tanto un cambiamento nella politica di sicurezza seguita dai governi israeliani negli ultimi anni, da Ariel Sharon a Benjamin Netanyahu.
La differenza è, semmai, in questo sciopero della fame, che preme su tutti: Israele, Autorità Palestinese, Hamas e Fatah, comunità internazionale. Il file delle migliaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane (ve ne sarebbero ora circa cinquemila, ma i numeri cambiano ogni giorno) è stato nei fatti accuratamente messo da parte, nei negoziati. Nonostante colpisse, quotidianamente, l’intera società palestinese, ogni famiglia, ogni paesino, la macchina produttiva.
Le prigioni, però, non sono una parentesi, nella vita dei palestinesi, neanche nella vita degli attivisti delle diverse fazioni, che anzi continuano a far politica in cella, e a incidere sulle stesse decisioni che le fazioni prendono fuori dai muri degli istituti di pena. E questo sciopero della fame ne è la dimostrazione.
La pratica del digiuno è stata aperta qualche mese fa da un attivista della Jihad Islamica, Khader Adnan, senza una precisa strategia della fazione palestinese che più aveva usato la violenza. La decisione di un singolo, insomma, che poi è stata seguita da un’altra detenuta in carcere preventivo, Hana Shalabi, e via via da altri. Sino a che le fazioni non sono state – per così dire – costrette a decidere uno sciopero collettivo per non farsi sopravanzare dai casi isolati.
Ora la questione dei detenuti è divenuta una questione reale, nonostante molta della stampa occidentale non se ne sia accorta. Una questione che la politica palestinese non può risolvere con un semplice compromesso. E che mette Israele di fronte a una scelta di fondo: se difendere la sua sicurezza solo attraverso la sicurezza, o se rimettere in gioco la politica.
Paola Caridi