Quando il gioco è una malattia

L'allarme del Censis: il 7% dei giocatori italiani è "a rischio", mentre i patologici sono il 2%, ma si sale al 12% tra i giovani. Il disturbo riconosciuto dall'Oms. Mappa degli aiuti.

Curarsi si può, ecco dove e come

02/01/2012
Foto: Fotogramma
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La cura per il gioco patologico esiste, ma nel nostro Paese è una storia ancora tutta da scrivere: solo in tempi recenti, e non senza fatica, alcune regioni, come Piemonte, Toscana ed Emilia Romagna, hanno avviato percorsi riabilitativi sperimentali. Ma le prime realtà che con coraggio hanno affrontato il problema sono state le associazioni di volontariato, soprattutto quelle che avevano alle spalle esperienza nel trattamento di altre dipendenze.

A Torino, ad esempio, opera da anni il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, conosciuto soprattutto per la sua attività di recupero delle persone tossicodipendenti. «Abbiamo iniziato a occuparci di gioco d'azzardo nella seconda metà degli anni '90 – spiega Leopoldo Grosso, vicepresidente Gruppo Abele – Inizialmente le richieste d'aiuto riguardavano soprattutto i pensionati, che rischiavano di rovinarsi col lotto o le scommesse. Oggi c'è una realtà diversa: arrivano genitori di adolescenti, allarmati perché i loro figli continuano a chiedere soldi per giocare alle slot machine. Basta fare un giro in alcuni quartieri per avere un'idea del problema: come non notare un legame tra il proliferare delle sale da gioco e la crescente diffusione dei negozi 'Compro Oro'? Evidentemente il gioco d'azzardo è una tassazione sulla povertà».

Leopoldo Grosso (Gruppo Abele)
Leopoldo Grosso (Gruppo Abele)

Trovare la forza di chiedere aiuto è ancora molto difficile: nonostante le statistiche rivelino un fenomeno imponente, su circa mille persone accolte ogni anno dal gruppo Abele solo una trentina ha problemi di gioco patologico. «Di solito a lanciare l'allarme non sono i diretti interessati, che tendono a minimizzare la realtà, ma i loro familiari. Il primo passo, quindi, è cercare di stabilire un contatto con i malati». Il gruppo Abele opera su vari fronti. Da un lato collabora col Sert (Servizio Tossicodipendenze) dell'Asl, ma ha anche un proprio punto di accoglienza, dove lavorano specialisti e volontari. «Spesso i giocatori faticano ad avvicinarsi al Sert – spiega Grosso – proprio perché non accettano di definire il loro problema come una dipendenza. Da qui l'idea di portare avanti un percorso parallelo».

La cura richiede tempi lunghi. «Questo tipo di patologie», puntualizza ancora Leopoldo Grosso, «si affronta con una terapia cognitivo-comportamentale. Bisogna lavorare sul sintomo, il gioco in sé, ma anche scavare più a fondo, cercare il disagio che sta dietro. Infatti quasi sempre il gioco è uno sfogo improprio, un modo per allentare una forte tensione emotiva, legata a situazioni lavorative o familiari pesanti. Il nostro percorso prevede anche una terapia di gruppo. Infatti tra gli effetti più devastanti del gioco c'è l'isolamento: improvvisamente il malato si ritrova ripiegato su se stesso, chiuso nel suo mondo. Noi cerchiamo di aiutarlo a ricostruire dei legami".

Foto: Fotogramma
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Anche in altre parti d'Italia sono nati progetti coraggiosi. A Reggio Emilia, ad esempio, lavorano i pionieri del Centro Sociale Papa Giovanni XXIII, fondato nel '77 da don Ercole Artoni come punto di riferimento per gli ultimi, inizialmente soprattutto carcerati, malati psichiatrici e tossicodipendenti. Da undici anni il Centro affronta il problema del gioco patologico: con cinque gruppi di aiuto, finora ha preso in carico oltre 500 persone. L'ultima sfida, partita il 6 novembre scorso grazie ai finanziamenti della Regione, si chiama Pluto (come il dio greco della ricchezza, che, distribuendo denaro un po' a caso tra gli uomini, finiva per renderli avidi e infelici). E' un percorso di cura intensivo: per 21 giorni i malati vivono insieme in una casa immersa nel verde della campagna emiliana: in questo modo è possibile concentrare in un periodo ristretto un trattamento che diversamente richiederebbe circa 6 mesi.

«Un percorso del genere non basta per risolvere il problema – spiega Umberto Caroni, responsabile del progetto Pluto – Serve poi una terapia protratta nel tempo, anche perché il rischio di ricadute è altissimo. Però può essere un ottimo inizio». Ogni malato si porta dentro il suo bagaglio di dolori e illusioni. «Ciascuno ha un gioco preferito – racconta Caroni – Questo è il primo indizio per far emergere i problemi che stanno alla radice. Ad esempio chi predilige le scommesse di solito ripone una fiducia sconfinata nella propria abilità. Chi invece si lascia attirare da giochi numerici come il lotto fa riferimento al pensiero magico, nella convinzione che esista un segreto legame tra  eventi della propria vita e particolari combinazioni di cifre. Noi proviamo a smontare questi falsi miti, riportando il malato sul piano della realtà».

In un contesto sociale ed economico difficile, secondo Caroni «i giochi andrebbero rimessi al loro posto, proprio come il dio Pluto che, nel finale di una commedia di Aristofane, viene messo a guardia del tesoro del tempio, una posizione che lo rende utile alla società impedendogli di fare danni. Tutti i governi dal '90 a oggi, indipendentemente dall'appartenenza politica, hanno incentivato il gioco d'azzardo. E' ora che si cominci a prendere qualche provvedimento, riducendo l'offerta e le possibilità di accesso. Troppe persone e troppe famiglie stanno pagando il prezzo di questa realtà».

Lorenzo Montanaro
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