20/11/2012
Incontriamo M. alla sede di
Soleterre. Arriva trafelata, si scusa per il ritardo e ride nervosamente. Ha
finito di lavorare prima del solito per venire a questo incontro del quale, è
evidente, ha un certo timore. Il timore di dire la cosa sbagliata, una frase
compromettente. Il timore di vedere la propria fiducia tradita. Con lo sguardo
cerca ripetutamente Cecilia Rivera, la mediatrice culturale che ci assiste in
questo racconto: si guardano ed M. si sente rassicurata ma le frasi,
all'inizio, le escono con fatica. È come se non riuscisse a prendere il ritmo.
Ho la sensazione che preferirebbe essere altrove, ovunque. E invece, mi
sbaglio. Rivivere tutta la propria esperienza migratoria, per lei, è un dolore
che si rinnova. In forma diversa dal primo sbarco in Italia. In misura diversa
dal momento del ricongiungimento. Ma ancora ne porta i segni. M. viene da El
Salvador, fa un numero imprecisato di lavori, attraversando in lungo e in largo
Milano per raccogliere i soldi con cui consentire ai figli di studiare e vivere
dignitosamente e a sé e al compagno di sopravvivere. Lui, C., è disoccupato,
non disdegna qualche bevuta di troppo, a volte minaccia di andarsene, ma vuole
profondamente bene a M., ai loro figli. Che questa famiglia si riunisse l'ha
fortemente voluto anche lui. Andare con ordine è praticamente impossibile. I
ricordi di M., nella concitazione, si sovrappongono: Cecilia ci aiuta a
inquadrarli cronologicamente. Con il passare dei minuti questa mamma
salvadoregna così educata si apre di più, lascia che l'emotività del racconto
esondi. È curioso come le sue risposte siano, a loro volta, delle domande. Non
certo destinate a me, e nemmeno a Cecilia, quanto, piuttosto, a se stessa.
Perché lasciare due figli per venire in Italia, non vederli per 7 anni, e avere
la forza di tenere fede alla promessa che «la prima cosa che faccio una
volta ottenuto il permesso di soggiorno è tornare a trovarli» non è per
tutti. Lei però lo ha già fatto. Non arriva a 30 anni e la sua vita ha già
conosciuto dolori difficili da sopportare e gestire. Ma a volte bisogna essere
forti. Quando non sa come andare avanti con il discorso, M. ripete, come a
giustificarsi: «Sapete, sono stanca». C'è da crederle.
La sua storia migratoria è
iniziata nel 2002 quando si è fatta convincere a lasciare El Salvador: dietro
di lei, un compagno e due figli ancora piccoli; davanti: l'Italia. Dopo due
anni la raggiunge il compagno. Il loro incontro in aeroporto è tragicomico: C.
arriva da El Salvador via Spagna e all'aeroporto italiano in cui sbarca viene
fermato alla dogana per dei controlli proprio quando M. lo stava per
riabbracciare. «Quando ho visto che lo portavano via ho nascosto la mano
con cui mi sbracciavo per farmi vedere da lui». Troppo tardi. Ci deve
essere in atto un'operazione anti-clandestini. Anche M. viene portata in una
stanza dell'aeroporto e minacciata di sequestro del passaporto: lei non ha
ancora il permesso. Lui intanto se l'è cavata: ha la dichiarazione di una sua
parente che testimonia di essere pronta a prenderselo in carico. M. invece non
ha nessuno. Alla fine, però, la lasciano andare. Il tempo passa e M. "buca
l'appuntamento" con decreto-flussi e sanatorie. Siamo nel 2009. Sono
passati 7 anni dall'ultima volta che la donna ha visto i suoi figli: in mezzo,
qualche telefonata e tanti pensieri. M. entra in contatto con
"Soleterre" facendosi assistere nella parte legale del procedimento e
nella fase successiva a cui dà il proprio contributo anche il suo datore di
lavoro. Dato che ha dei figli a Chalatenango, insieme alla presentazione del
servizio le viene prospettata la possibilità della comunicazione
transnazionale. Seguito un corso di informatica, in attesa dell'agognato
permesso di soggiorno, M. vede tramite Skype i suoi figli per la prima volta.
Ad agosto 2010 l'idea di realizzare il ricongiungimento diventa più concreta:
si intensificano i colloqui congiunti con legale e psicologa nonché il
monitoraggio della mediazione interculturale. Il problema vero è che la donna
sottovaluta il peso degli aspetti pratico-burocratici e, soprattutto, quello dei
contraccolpi emotivi di questo tipo di percorso: intanto l'equipe in El
Salvador affianca i tutori dei bambini (gli zii) che stanno riscontrando
qualche difficoltà di apprendimento a scuola. Sono tutti segnali di una
situazione poco chiara, anche nel rapporto con i genitori che loro credono
uniti e felici...
È il mese di dicembre del 2010
quando M. sale sull'aereo che la riporta a casa e ancora nella sua testa non si
è completamente fatta strada l'idea sull'opportunità di riportare i suoi figli
in Italia. Il compagno, intanto, rimane in Italia e per la prima volta accetta
di partecipare alle videochiamate con i figli: chi ha assistito all'incontro
virtuale parla di un momento sinceramente emozionante. Intanto M. si ritrova a
essere mamma per una seconda volta e si rivela ben più difficile della prima:
la separazione li ha resi distanti. È come se non la riconoscessero come
genitore. Per questo lo staff di Soleterre in El Salvador aiuta e sostiene il
percorso di M.: da un lato c'è gestire l'emotività della situazione, dall'altra
mandare avanti la documentazione per il ricongiungimento. Già, perché nel
frattempo la decisione è maturata: «Non me ne sarei andata da lì senza di loro,
non potevo permettermelo. Li avrei persi per sempre». Il tempo stringe, la data
del rientro è già stata fissata ma la burocrazia può rendere tutto molto più
faticoso del lecito. Dall'Italia, C. dà il suo contributo: si prodiga per far
arrivare tutte le firme e i documenti necessari a completare il
ricongiungimento. A febbraio 2011, chiesta e ottenuta una proroga dai suoi
datori di lavoro italiani, M. torna in Italia. «Sul volo di ritorno non ci
potevo credere. Quando mio figlio più piccolo ha visto le luci della città
dall'alto non smetteva di ripetermi "Perché non ci hai portato qui prima"?».
I giorni successivi sono un turbillon di pratiche da sbrigare di cui C. si fa
carico con partecipazione. M. Invece affronta la difficoltà del non
riconoscimento da parte dei figli. Intanto i bambini cominciano i rispettivi
inserimenti scolastici e regolarizzano la loro posizione: certo, a loro mancano
i cuginetti e gli zii, ed è il motivo per cui si decide di estendere il
progetto delle videochiamate. A novembre 2011 una parte significativa dei
tasselli del puzzle trova compimento: la coppia si presenta con i permessi di
soggiorno dei figli dopo aver trovato una nuova casa e aver accettato di
lasciare i figli nella scuola in cui avevano iniziato a integrarsi. Certo, C.
non ha ancora il permesso di soggiorno e ci ha messo del suo non partecipando
al percorso disegnato su misura per lui da Soleterre. Ma tant'è. Oggi, per ora,
nonostante tutto. Sono tornati a essere prossimi (ri)congiunti.
Alberto Picci