13/12/2012
Una volta che la donna, la famiglia, entra
"ufficialmente" nel progetto cosa succede?
«Le azioni sono diverse e vengono ritagliate su misura a
seconda delle necessità e delle peculiarità che ogni caso presenta. Intanto c'è
l'home visiting: visite a domicilio da parte di educatrici che iniziano due
mesi prima del parto e si protraggono per i nove successivi alla nascita. A
completamento, offriamo consulenza psicologica per accompagnare la mamma nella
presa di coscienza del proprio ruolo: in contesti familiari spesso già
fortemente "segnati", la nascita di un figlio può essere fonte di
ulteriori frustrazioni e causa di strani "giochi" all'interno della
mura domestiche. Infine, ci sono gli spazi messi a disposizione dalla
cooperativa sociale: i genitori coinvolti in Slalom hanno l'opportunità di
partecipare agli incontri proposti, aperti anche ad altri, nella speranza che
proprio dal confronto e dalle testimonianze degli altri possa innescarsi un
circuito virtuoso delle emozioni. Sia chiaro che tutti questi step possono
anche non essere accettati dalla famiglia tutti insieme: c'è chi accetta più
facilmente che un'educatrice entri nella sua casa per dare dei suggerimenti
sulla relazione madre-figlio e chi invece trova che una consulenza sia troppo
intrusiva. Succede così che ci siano casi presi in carico esclusivamente
dall'equipe dell'home visiting e altri che si sottopongano solo alla consulenza
psicologica».
Dopo un anno, seppur con tutti i limiti delle
generalizzazioni, che tipo di risposte avete riscontrato?
«Il primo dato è che gli operatori sono tutti molto contenti:
il clima che si è creato già nella fase di progettazione è stato ottimo.
Nonostante gli inevitabili conflitti sulle modalità operative di ciascun ente
che è abituato a muoversi secondo le proprie logiche e con le proprio
dinamiche, ha sempre prevalso l'interesse del progetto anche in virtù della
curiosità manifestata da tutti gli attori in campo per il punto di vista
altrui. Un effetto "collaterale" di Slalom è trovare un sistema in
grado di agganciare persone con cui nessuno dei servizi coinvolti riesce a
mettersi in contatto, escludendoli di fatto da qualsivoglia genere di
intervento e sostegno».
E le famiglie cosa ne pensano?
«Bisogna partire dal fatto che le persone con cui ci troviamo
a lavorare hanno accettato spontaneamente di iniziare un certo tipo di percorso
e questo denota, se non altro, una buona predisposizione. Questa considerazione
va tarata però sulla base del fatto che, nello stesso tempo, non hanno bussato
alla porta di un consultorio di psicologia chiedendo aiuto. Le risposte sul
gradimento, dunque, non possono prescindere da questi fatti: certo è che il
tasso di abbandono del progetto è molto basso. Una sola famiglia, annusata
l'offerta, ha preferito abbandonare: tutte le altre, 12 al momento che
diventeranno 30 entro ottobre 2013, sono attivi. Al centro del nostro progetto
c'è la famiglia e ci sforziamo di capire quali risorse siano già presenti e
quali, invece, sono in qualche modo ancora da costruire o rinsaldare».
Come si aiuta una mamma fragile nell'avvicinamento al parto?
«Non è facile dare una risposta. Diciamo che noi abbiamo in
mente un ventaglio di scenari che potrebbero verificarsi in questi casi:
sostanzialmente, dunque, determinate dinamiche le annusiamo prima che si
concretizzino. In questo modo, le mamme stesse riescono a figurarsi in anticipo
quello che potrebbe attenderle e mettere dunque in atto correttivi e
"forme" di protezione che al momento della nascita e nei mesi
successivi potrebbero rivelarsi efficaci. Se si riescono ad agganciare le famiglie
prima del parto, tra l'altro, il legame che si instaura con gli operatori
aumenta notevolmente in considerazione del carico emotivo che il momento della
nascita comporta».
La genitorialità è dunque il filo conduttore di tutta questa
esperienza...
«Sì, ma non tanto per comprendere "come si è
genitori", quanto per
capire "che genitori si può diventare".
Poiché le persone a cui ci rivolgiamo arrivano da percorsi di sofferenza, la
genitorialità, con tutte le sue sfaccettature e nella sua complessità, è
maggiormente sottoposta a rischi di "contaminazione" da parte delle
problematiche che appartengono al genitore stesso.
Cosa succederà alla fine dei due anni del progetto?
L'aspetto positivo è che gli operatori che hanno lavorato
con queste famiglie fin dall'inizio comunque rimarranno perché è da lì che, in
fondo, provengono: e dunque tutto il
patrimonio di informazioni acquisite
trasversalmente nel corso dei due anni comunque risulta utile anche in caso di
ritorno alla "frammentazione" del percorso di sostegno.
Alberto Picci