Io, volontaria in Kenya/1

Cinzia Polino, insegnante, giornalista e fotografa ha trascorso un mese delle ferie in una missione a circa 250 km da Nairobi. Il racconto della sua esperienza. Un video.

29/09/2010
Kenya, Ndthini, la scuola all'interno della missione delle Piccole Figlie di San Giuseppe: l'assemblea che si svolge ogni lunedì per iniziare la settimana.
Kenya, Ndthini, la scuola all'interno della missione delle Piccole Figlie di San Giuseppe: l'assemblea che si svolge ogni lunedì per iniziare la settimana.

Mi chiamo Cinzia Polino. Ho 42 anni e sono un’insegnante di Lettere in una scuola media del milanese. L’Africa l’avevo sempre considerata un continente grande e selvaggio, che se ne stava lì, pieno di tante cose che però non mi interessavano, non mi riguardavano. Due anni fa ho conosciuto Josephine, una suora keniana che veniva da una regione povera dell’altopiano vicino a Nairobi. Avevo voglia di fare qualcosa per gli altri e ho pensato che forse suor Josephine poteva darmi qualche contatto per farlo in Africa. E così è stato. Avevo paura, lo ammetto: mi spaventava l’idea che dove stavo andando c’era gente che moriva (muore) di fame, di AIDS e di malaria. Però ho fatto bene. Per fortuna l’Africa non è solo malattie e morte. E davvero questo meraviglioso continente, con  le sue genti, ha tanto da dare. Volete sapere cosa soprattutto mi sono portata a casa sia l’estate scorsa che quest’anno? Il sorriso dei bambini, la gentilezza delle persone, e una contagiosa voglia di vivere.

Arrivata in Africa, all’aeroporto di Nairobi, che porta il nome del primo presidente del Kenya indipendente, Jomo Kenyatta, c’è sister Theresa con l’ autista. Partiamo subito per Ndithini, nella regione di Machakos, a est della capitale, in una zona povera dell’altopiano che supera i 1000 metri. Lì hanno una missione le Piccole Figlie di San Giuseppe (Little Daughters of St. Joseph), la cui casa madre è a Verona. Sul pickup tutto impolverato scivoliamo lentamente nel traffico sconcertante della capitale all’ora del pranzo: tutti si riversano in strada, minibus e bici, pedoni e moto, auto, carretti e carichi trasportati da uomini. L’Africa non è immobile: cerca di muoversi.

    Oltrepassiamo Thika, una cittadina con quasi 90 mila abitanti. Quando, dopo circa un’ora, svoltiamo sulla strada non asfaltata, rossa e polverosa, ho la sensazione che cominci il viaggio più vero: un grosso sentiero di montagna, che sale e scende, pieno di buche e sassi. Se hai lo stomaco debole, devi rassegnarti per più di due ore. Però le suore lo possono fare di giorno e di notte, anche subito dopo aver mangiato. La vegetazione non è tanto brulla, perché quest’anno ha piovuto parecchio, a differenza dello scorso. La gente è contenta: ha potuto coltivare. Invece le piantagioni di ananas della Del Monte che troviamo lungo strada ci sono sempre, perché vengono irrigate.

    Ndithini è un piccolo paese. C’è la scuola pubblica, la parrocchia e la missione delle Piccole Figlie di San Giuseppe. Sulla vasta area delle colline circostanti ci sono capanne sparse. Gente che vive di quello che riesce a coltivare: mais bianco, fagioli, frutta (il piatto quotidiano in Kenya, chiamato ghitheri, è fatto appunto di mais e fagioli bolliti insieme).

    Dieci anni fa a Ndithini la missione aveva solo il dispensario comboniano, per curare i pazienti che non potevano andare in ospedale. Quando sono arrivate le Piccole Figlie di San Giuseppe non c’era luce, nessuna forma di elettricità, e soprattutto non c’era acqua. Solo due anni fa, dopo aver scavato tre pozzi, l’hanno trovata. E l’anno scorso la siccità ha spinto molti abitanti del circondario ad approvvigionarsi dalle suore.

    La cosa più bella della missione è la sua comunità. In un unico compound vivono più di trecento persone tra bambini e adulti. In questa cittadella tutti si conoscono, si rispettano e spesso si aiutano; ognuno ha un suo ruolo e dei compiti precisi. Al Comboni Dispensary, con una quindicina di posti letto (soprattutto per malati di malaria, di polmonite, di AIDS, e per le partorienti), si fanno le vaccinazioni e si curano anche problemi dentali e psicologici. Non immaginate quante donne vengano a raccontare problemi familiari: sulle donne africane pesa spesso totalmente il mantenimento dei figli.

    La Tito Primary School, con le sue otto classi, conta complessivamente più di 200 studenti; il nido ha una trentina di piccoli, la scuola materna altrettanti bambini. La stragrande maggioranza dei bambini sono orfani e il 40% è positivo al virus dell’HIV, dalla nascita. Io mi sono inserita nella vita scolastica insegnando informatica e lingua italiana e facendo attività creative come la costruzione di racchette da tennis di giunco e filo di cotone e bamboline di foglie di mais. Una parte importante della cittadella è la terra coltivata (shamba, in swahili) da cui vengono ricavate frutta e verdura per la comunità; e le stalle.

    L’alimentazione non prevede carne perché non sarebbe sufficiente per tutti. Le proteine animali vengono riservate ai malati di AIDS che ne hanno bisogno per far fronte alla terapia antivirale. Da un anno i farmaci per l’AIDS arrivano gratis dal governo e al dispensario ogni primo lunedì del mese c’è la fila di persone che vengono a prendere la dose mensili. Se ti curi (e mangi a sufficienza) vivi per 20 anni. Una volta ogni 10 giorni parte del personale medico si sposta col pickup per andare a visitare i malati del circondario che non possono raggiungere il dispensario. Tornano sempre con diversi pazienti caricati sul rimorchio.

    Quando sono arrivata tutti i bambini mi aspettavano per accogliermi, con danze e canti ritmati al battito delle mani e del tamburo: un’accoglienza degna di un re, perché in Africa l’ospite è sacro. Anche durante la permanenza tutti mi ripetevano di sentirmi a casa: “feel at home!”. Un africano sa bene cos’è una casa anche se non ne ha una: è un posto dove ti senti bene perché c’è un reciproco sentimento di appartenenza, la terra e la comunità sono le tue e tu sei di quella terra e di quella comunità. E quando un bianco va in Africa e sperimenta questa cosa, se la porta dentro quando riparte, ed è per questo che a volte i bianchi hanno il “mal d’Africa”.

Cinzia Polino
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Postato da cinzia francabandera il 17/07/2011 13:25

ho letto con interesse della tua esperienza in Africa. mio figlio di 18 anni vuole prendersi un anno sabbatico prima di fare l'universitàa e dedicare qualche mese ad un progetto di volontariato in Africa. siamo un po persi tra tante informazioni che si trovano nella web. potresti darci delle indicazioni. potrebbe essere indicato per lui andare a dare una mano dove sei stata tu? grazie. Cinzia

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