Intervista con Fabio Lalli, fondatore degli Indigeni Digitali

23/04/2012
Fabio Lalli
Fabio Lalli

Che cosa si deve intendere, esattamente, con il termine di start up? Vuol dire automaticamente creare un'azienda, una piccola avventura imprenditoriale? Oppure è anche soltanto il lancio di una nuova intuizione nel mondo delle tecnologie digitali che può essere sviluppata come business?
    «Oggi questo termine è prevalentemente utilizzato per imprese digitali nate nel settore Internet o delle tecnologie dell’informazione. Negli ultimi tempi inoltre, un po’ per l’euforia e un po’ per la distorsione che sta prendendo il termine, la definizione di startup viene utilizzata, a mio avviso erroneamente, anche per definire prematuramente una intuizione o “qualche riga di codice” sviluppata».

Mi fai due-tre esempi di start up ormai "storiche", a livello mondiale, che hanno avuto successo planetario e creato ricchezza e posti di lavoro?
    «Così su due piedi direi Google, ma sarebbe scontato. Sicuramente potrei citare, per come la vedo io, Dropbox, Evernote ed Instagram. Dropbox è uno dei più famosi sistemi di storage on line ed il suo modello di business è basato sulla vendita di spazio aggiuntivo agli utenti che vogliono passare dalla versione Free ad una versione Pro con maggiore spazio. Evernote è un sistema che permette agli utenti di memorizzare informazioni trovate on line, classificarle e poterle successivamene consultare da qualsiasi dispostivo (web, mobile, desktop): anche in questo caso la fonte di guadagno è la versione Premium che permette agli utenti di avere maggiori funzionalità e maggiore spazio di memorizzazione. Infine c’è Instagram, attualmente il più famoso sistema di foto sharing. A mio avviso anche Instagram rientra tra le startup, e forse per il tipo di crescita, evoluzione e sviluppo è stata quella più riuscita considerando che ha meno di due anni di vita. Certo, in questo caso c’è da dire che non ha ancora un modello di business… ma forse con la vendita miliardaria, hanno fatto ancora di più».

Quante sono le startup degne di nota che hanno avuto e hanno successo dal punto di vista imprenditoriale in Italia?
    «Prima di tutto andrebbe definito il concetto di successo: per me successo non per forza vuol dire diventare Facebook o Google, è anche riuscire a costruire qualcosa di sostenibile e farlo conoscere all’estero. Non saprei darti un numero preciso in effetti ma sicuramente sono più di quelle che si possa pensare, considerando che la tv ancora ne parla pochissimo: mi vengono in mente Arduino, Balsamiq, Funambol, ultimamente Jobrapido e tante alte più piccole che sono riuscite a farsi notare anche fuori dall’Italia».

Quando è nato questo fenomeno nel nostro Paese? E in quali regioni è maggiormente sviluppato?
    «Credo che negli ultimi 4 anni il concetto di startup abbia iniziato a diffondersi anche in Italia. Le regioni più attive? Secondo me non c’è una regione più attiva di un'altra: sicuramente ci sono dei punti di maggior aggregazione ed incontro, ma non c’è una ragione che è più sviluppata più di altre. Se proprio dovessi dire tre/quattro città nelle quali sto riscontrando un maggior fermento, ti direi Milano, Brescia, Roma e Torino. Anche l’Emilia Romagna comunque non è da meno».

Chi sono i nostri migliori creatori di start up? Quanti anni hanno in media? Che formazione hanno? Dove hanno studiato? Che cosa hanno studiato? Sono più maschi o più femmine? Basta che abbiano una laurea o devono fare esperienza e gavetta all'estero?
    «Non c’è una fascia particolare: la forbice va da giovanissimi 17enni a 30anni inoltrati. Tendenzialmente hanno una laurea, ma ci sono molti casi in cui non è così: hanno studiato Ingegneria, Informatica, Economia o Comunicazione. Attualmente per quello che vedo io c’è una predominanza di uomini. Riguardo alla laurea ti direi che non è necessaria così come l’esperienza all’estero: anzi, spesso avviene il contrario, si parte dall’Italia e l’esperienza da startupper si matura all’estero».

Come si fa a lanciare una start up? A chi bisogna rivolgersi? Si possono avere finanziamenti? E se sì, come?
    «Fondamentalmente bisogna avere una idea che risolve un problema. Poi bisogna impegnarsi, avere costanza e determinazione, ed esser coscienti che non tutti i progetti saranno la prossima Apple, Facebook o Instagram di turno. In Italia ci sono eventi di startup competition, investitori e business angels. Sicuramente non vengono a trovarti a casa solo perché stai facendo una startup. Per arrivare ad avere investimenti, finanziamenti e “recuperare” capitali, bisogna partecipare ad eventi specifici, informarsi, esser presenti ed avere il coraggio di provare. Non c’è una formula magica per attirare un investitore: certamente c’è bisogno di dare forma all’idea e fare. Se l’idea rimane solo una idea, non ci sono investitori che tengano».

Chi sono i più grandi protagonisti delle start up nel mondo? Cioè, con chi devono competere i nostri ragazzi? Con americani, giapponesi, indiani, cinesi?
    «Ci sono startup con fondatori di tutto il mondo: in questo momento la Silicon Valley ospita molte startup note, ma non sono tutti americani, anzi. In Europa per esempio Berlino sta diventando un punto di sviluppo e punto di aggregazione per startupper e neo imprenditori. A mio avviso gli Italiani, vuoi per creatività, vuoi per design, vuoi per competenza tecnica possono giocarsela benissimo con il resto del mondo: in Italia siamo pieni di talenti, solo che spesso non emergono per più fattori».

Pensi che il mondo delle start up sia robusto? Che sia destinato a durare? O può accadere che sia oggetto di "bolle" che si spengono come è già purtroppo successo a tante aziende che hanno investito in Internet, nell'e-economy?
    «Penso che questo nuovo momento sia più robusto del precedente: certo, non è facile dire se può durare o meno. Sicuramente può portare cambiamento, valore ed innovazione. Sul fatto che ci siano startup che si spengono, penso sia normale e fisiologico: molte non hanno modelli sostenibili, altre non riscontrano una domanda del mercato, altre non vengono portate avanti con determinazione, altre non vengono capite e così via. Le startup non hanno regole diverse dalle aziende normali. Vivono nello stesso contesto, nella stessa era e hanno gli stessi problemi: sono solo più dinamiche, snelle e possono fallire più velocemente, così come possono esplodere e diventare progetti miliardari».

Dossier a cura di Pino Pignatta
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