Le promesse mancate
21/03/2012
Lo sviluppo degli ultimi decenni ha
prodotto un cambiamento accelerato
che, se da un lato ha ampliato le opportunità
e gli orizzonti di vita, dall’altro
ha trasformato in profondità il significato
e la portata di questi tre ambiti
antropologici. Analizziamoli.
- Consumo e crisi della festa. La
cosiddetta società dei consumi recupera
e trasforma alcuni tratti costitutivi
della festa – il dispendio, lo star bene,
la socialità – in pratica quotidiana.
Abbandonata l’etica lavoristica della
prima fase industriale, si afferma una
visione materialistica della vita, in cui
hanno un ruolo centrale benessere e
godimento. Nella cultura degli ultimi
decenni, il consumo è addirittura diventato
un dovere economico – occorre
consumare per sostenere l’economia
– e persino un imperativo morale
– ognuno gode del legittimo diritto a
stare bene. Apparentemente liberatorio,
il consumo finisce però per trasformarsi
in una nuova prigione. Non
a caso, c’è stato chi ha definito il nostro
tempo come l’epoca delle passioni
tristi, perché la ricerca del godimento
è destinata continuamente al
suo fallimento, nella misura in cui i
beni o le esperienze che inseguiamo
si rivelano quanto mai inconsistenti.
L’atto del consumo ha effetti immediati
e visibili, ma la soddisfazione
non può che durare poco. Il consumo,
infatti, offrendo un palliativo momentaneo,
che va per questo continuamente
ripetuto, rivela di continuo
la sua inefficacia, per contrastare
la quale ha bisogno di sviluppare un
tratto ossessivo-compulsivo.
Inoltre, anche quando svolto in presenza
di altri – anzi, di solito si consuma
in mezzo agli altri e il “consumo vistoso”,
come è stato definito già all’inizio
del secolo, è parte integrante della
soddisfazione dell’atto stesso – il
consumo rimane pensato come un atto
individuale. Si consuma magari vicini,
ma spesso ognuno per conto suo.
Si consuma da soli, pur sentendosi
parte della “tribù” dei consumatori
che costruisce un “noi” effimero e poco
impegnativo. Dalla “massa” di individui
isolati e vulnerabili si passa allo
“sciame” dei consumatori (come li
chiama Bauman), individualmente ma simultaneamente sintonizzati sugli
stessi oggetti del desiderio (i must
have del momento) e pratiche (i must
do). Così che, alla fine, la cultura della
libertà assoluta finisce col produrre
nuove normatività, nuove autorità
(gli esperti come i “nuovi sacerdoti”
dell’era contemporanea, come li finisce
Illich) e nuove ritualità (i calendari
del consumo dettati dal lancio dei
nuovi prodotti, dalla stagione dei saldi
etc.; i pellegrinaggi a quelle che Ritzer
chiama “le nuove cattedrali del
consumo”, come ipermercati e outlet;
i “rituali individuali di massa” come le
diete prima della stagione estiva, rimbalzate
da ogni medium e non solo
dai settimanali femminili e così via).
E il consumo, che avrebbe dovuto garantire
espressività e autonomia, felicità
e socialità, finisce invece per produrre
tanti individui che, soli e insoddisfatti,
agiscono in modo estremamente
conforme. Così, le persone
che dicono di fare quello che vogliono
finiscono per fare tutte le stesse cose,
e il conformismo è l’effetto solo apparentemente
paradossale della libertà
assoluta, vista come libertà di scelta
nella società dei consumi.
Diventando un’attività quotidiana
che tende non solo a occupare molta
parte delle nostre giornate, ma anche
a definire la nostra identità, il consumo
tende così a colonizzare anche la
festa. Quest’ultima, spogliata della sua
dimensione collettiva e soprattutto,
della sua componente di sacralità, viene
colonizzata dal consumo, dato che
le persone, senza rendersene conto,
continuano a lavorare producendo
reddito attraverso la loro attività di acquisto.
La dimensione sacra, rifiutata
nella sua veste religiosa, riemerge come
si è visto nella forma dei pellegrinaggi
alle “cattedrali del consumo”,
nelle ritualità guidate dai nuovi esperti
(gli idoli del momento, i guru delle
ultime tendenze), nella partecipazione
di massa ma individuale alle cerimonie
calcistiche, all’inizio dei saldi,
al concerto della star. L’appiattimento
inevitabilmente prodotto da questo regime
viene contrastato, nella cultura
dominante, con iniezioni di eccitazione
artificiale che mirano a rendere
l’istante (unità di misura delle vite contemporanee)
il più denso e intenso
possibile, con qualunque mezzo (dalla
trasgressione all’uso di sostanze).
- Crisi del lavoro. Parallelamente
all’ascesa del consumo si registra la discesa
del lavoro che, per molte persone
– anche se non per tutti – diventa
un ambito secondario e in molti casi
problematico. Tale effetto si produce
su un duplice piano. Prima di tutto, il
lavoro è in crisi per le mutate condizioni
economiche che lo rendono precario
e instabile. Il perdurare di problemi
dal lato della sicurezza del lavoro,
la larga diffusione del lavoro nero,
la flessibilizzazione dell’occupazione,
il ritorno di forme odiose di sfruttamento,
la perdita di una scansione degli
orari tale da permettere nonché
una netta separazione tra lavoro e
non lavoro sono tutti aspetti concreti
di quel processo di flessibilizzazione
di cui si è avuta ampia traccia negli ultimi
due decenni. Al tempo stesso, la
flessibilizzazione ha anche portato
con sé profondi cambiamenti organizzativi,
con un ciclo produttivo che
sembra non potersi fermare mai e deve
girare 24 ore su 24 e 365 giorni su
365 giorni all’anno. Senza più alcuna
interruzioni in grado di rispettare il
tempo altro: quello del riposo, degli
affetti, della contemplazione. E poi,
più radicalmente, il lavoro non è per
tutti. Pensiamo in particolare all’ancora
insufficiente capacità di valorizzare
la risorsa femminile e quella giovanile.
Su un secondo piano, la crisi del lavoro
investe la sua componente
espressiva ed esistenziale. Infatti, la
progressiva svalutazione sociale del lavoro,
la caduta di prestigio di tante
professioni socialmente importanti
(come quella dell’insegnante per
esempio) lo rendono sempre meno
un ambito su cui investire e sempre
più un elemento puramente strumentale,
spesso anche fonte di risentimento
sociale. Per una quota crescente di
popolazione, il lavoro non solo non è
una fonte di realizzazione – cosa che
probabilmente non è mai stata – ma
stenta anche a rappresentare un valore
esistenziale. E ciò sia per effetto delle
mutazioni nell’esperienza del lavoro,
ma anche per il rapporto tra il lavoro
e le altre sfere di vita. L’individualizzazione
incide anche sul senso del
lavoro, dato che si lavora per sé stessi
e più raramente per qualcun altro.
- Crisi della famiglia. Il terzo polo
della crisi è quello della famiglia. La
tendenza generale è nota: si riduce il
numero dei matrimoni, aumentano
le convivenze, crescono separazioni e
divorzi, calano le nascite, si diffondono
le famiglie ricombinate (o multiple)
e i bambini nati fuori dal matrimonio.
Le ragioni sono molteplici e
attengono ad aspetti culturali, economici
e istituzionali. Di fatto, la crisi
della famiglia è espressione di una
più generale crisi del legame sociale.
In un mondo in cui ci pensiamo come
individui, in cui consumiamo e lavoriamo
come individui, la famiglia
perde terreno. Mancanza di solidarietà
e sostegno per affrontare i momenti
di crisi e fatica, individualismo, potenza
di immaginari che stimolano la
ricerca della realizzazione e del benessere
individuale, caduta dei riferimenti
condivisi capaci di orientare, sostenere
e valorizzare l’impegno familiare,
modalità abitative che rinforzano
il senso di isolamento e rendono complessa
la gestione della quotidianità,
soprattutto in presenza di figli piccoli,
sono solo alcune delle ragioni che
spiegano la difficoltà attuale delle
coppie di restare unite, la bassa natalità,
il problema dell’assistenza agli anziani.
Non che la famiglia sparisca. È
che viene messa sotto attacco e svuotata
dall’interno: se la disposizione di
fondo è quella dell’apertura a nuove
opportunità, allora tutto ciò che lega
e impegna è visto come una fatica.
Chiara Giaccardi
Mauro Magatti
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