21/03/2012
Anche il lavoro è in crisi, una crisi
di senso prima ancora che economica.
Nella sua accezione originaria il lavoro,
che reca in sé i significati
dell’opera, della fatica e dell’impegno
(da labor, fatica) contiene anche
la capacità tipicamente umana di trasformare,
orientare, far essere (dalla
radice antica labh, che significa in senso
letterale “afferrare” e in senso figurato
“volgere il desiderio, la volontà,
l’intento, l’opera a qualcosa”). Un dinamismo
trasformativo dunque, una
poiesis che non è puro fare strumentale,
ma anche azione dotata di senso e
in qualche modo “poetica” (che non
a caso ha la stessa radice).
La famiglia aiuta a sanare l’alienazione
che il lavoro ha subìto nella cultura
contemporanea, che è una cultura
della contrapposizione e delle false
alternative. Da una parte, il lavoro è
diventato una pura funzione (lo strumento
per avere accesso al consumo;
in casi numericamente molto più rari
lo strumento per la propria autoaffermazione
e per l’acquisizione di potere personale) spesso sganciata dal significato
e dalla dimensione relazionale.
Dall’altra ha subìto una precarizzazione
che sollecita un disinvestimento
emotivo. La famiglia è un ambito in
cui il lavoro ha certamente una componente
strumentale-riproduttiva e
anche ripetitiva (se si pensa al ciclo
ininterrotto del lavoro domestico),
ma non é riducibile a esse. Anzi, proprio
nel lavoro domestico la dimensione
del dovere e quella dell’espressività,
la fatica e la gioia, l’impegno individuale
e la bellezza della condivisione
possono trovare spazio e sintesi, e farsi
così momenti di educazione a un
rapporto non alienante con le dimensioni
della fatica e dell’impegno. Contrastando
il luogo comune
che la fatica sia
solo peso, e che per “rifarsi”
occorra un divertimento
disimpegnato.
famiglia:
un “nome collettivo”
(né singolare né
plurale) che ha a che
fare con la casa (faama
nel latino antico), e soprattutto
con le relazioni,
di sangue ma non
solo, che nella casa trovano
un contesto favorevole
e facilitante.
Perché è dentro la casa
che si sperimenta la
fondamentale condizione
antropologica della non autosufficienza,
non vissuta come una condizione
di limitazione frustrante, ma
come occasione di gioiosa gratitudine.
La famiglia è il luogo in cui si sperimenta
che “la relazionalita è un elemento
essenziale dell’umanità” (Caritas
in Veritate, n. 55): «Il punto cruciale
sta nel superamento d quella falsa
idea di autonomia che induce l’uomo
a percepirsi come un “io” completo
in sé stesso, laddove, invece, egli diventa
“io” nella relazione con il “tu” e
con il “noi” (...) e solo l’incontro con
il “tu” e con il “noi” apre l’io a sé stesso
» (Orientamenti Pastorali n. 9).
In un mondo in cui tendono a prevalere
sempre più l’individualismo interconnesso
e i fragili legami di rete,
e la connessione digitale ininterrotta
rischia di scivolare in una cybersolitudine,
la famiglia è ancora il luogo in
cui sperimentare che la pienezza della
relazione intercorporea resta il modello
e il fine di ogni altra forma, seppur
preziosa, di interazione. E in un
mondo frammentato, dove il tempo
diventa una collezione di istanti,
l’identità una collezione di faccia, la
relazione una sommatoria di esperienze
e dove pubblico e privato, individuale
e collettivo, materiale
e spirituale, funzioni
e significati sono
sempre più contrapposti
(o dove, in modo altrettanto
discutibile, si
appiattiscono le distinzioni),
la famiglia diventa
ancor più un luogo
di sintesi, di ricomposizione
delle fratture,
di tessitura di unità
nelle differenze. Un
luogo dove si impara
che non c’è mai solo
gioia o solo dolore,
che la festa comporta
un impegno, che
l’amore per l’altro passa
dal prendersene cura (CV 11).
La famiglia può essere il luogo della
gratuità che contrasta il dilagare
della strumentalità. Nel suo messaggio
per la 43° Giornata mondiale delle
Comunicazioni sociali, Benedetto
XVI scriveva che «il cuore umano anela
a un mondo in cui regni l’amore,
dove i doni siano condivisi». Condividere
i doni, realizzarsi con altri, coltivare
il rapporto e la trasmissione tra le
generazioni come una ricchezza che
può alimentare la ricerca di vie nuove:
la famiglia può essere il laboratorio
di un’alleanza intergenerazionale
di cui oggi c’è molto bisogno per ritessere
i legami e non rimanere intrappolati
nella dittatura del dato di fatto,
per la quale il presente non ci offre alcun
antidoto. Può essere, si diceva, anche
il luogo dove non c’è contrapposizione
tra azione strumentale e azione
simbolica, tra funzioni e significati:
ogni gesto e ogni parola esprimono
più di quanto dicono, e, attraverso
questa loro “eccedenza”, aprono alla
dimensione di una verità che é amore.
La famiglia può essere il luogo di
una “poesia del quotidiano”, un ossimoro
solo apparente come ci hanno
insegnato tanti grandi poeti, da Blake
a Hopkins, da Holderlin a Rilke. Un
approccio poetico alla quotidianità ci
consente di «declinare la testimonianza
nel mondo secondo gli ambiti fondamentali
dell’esistenza umana, cercando
nelle esperienze quotidiane
l’alfabeto per comporre le parole con
le quali ripresentare al mondo l’amore
infinito di Dio» (O.P.). In un mondo
di contiguità disconnesse, di relazioni
virtuali da cui si esce con un click,
di legami fragili e relazioni sofferenti,
dove «la società sempre più globalizzata
ci rende vicini ma non ci rende
fratelli» (C.V. 5), solo in un contesto
dove nella continuità, nella prossimità,
nell’ascolto e nella gratuità è
possibile sperimentare (e non solo immaginare
o sperare) le condizioni
che ci educhino, per usare un’espressione
di Christopher Theobald, a una
“fraternità non sovvertita”.
Chiara Giaccardi
Mauro Magatti