21/03/2012
La giornata mondiale della famiglia è anche
un’importante occasione per rivitalizzare, insieme
ai termini, anche la nostra consapevolezza e progettualità,
in una prospettiva condivisa, dato che nella
cultura contemporanea la ricchezza dei significati
originari di questi ambiti fondamentali
per la pienezza dell’esistenza umana
rischia di perdersi. Intanto per ripensare
la festa. Nella radice etimologica
di “festa” c’è il tema della convivialità,
dell’abbondanza e della gioia
(dal greco festiào, che vuol dire “festeggio”,
“banchetto”), ma anche quello
dell’accoglienza, del focolare domestico
che si apre all’ospitalità, allargata
anche a chi non fa parte della famiglia
strettamente intesa come l’insieme
dei legami di sangue (dal greco
estiào, che riprende il nome da Hestia,
la dea del focolare domestico che tiene
la porta sempre aperta per il pellegrino
di passaggio).
Sia la dimensione celebrativa, sia
l’articolazione tra riparo intimo e
apertura accogliente, contenuto
nell’accezione originaria, rischiano
di perdersi. La prima schiacciata da
un regime di equivalenze generalizzate,
sulla base dell’unità di misura
dell’istante, che differenzia i momenti
sulla base dell’intensità emozionale
individuale: mantenere la memoria,
festeggiare i successi dei membri, sottolineare
la domenica, il giorno
dell’onomastico, gli anniversari anche
della famiglia allargata, sono tutte
occasioni per inserire una discontinuità
che alimenti e ravvivi l’ordinarietà.
Possibilmente in forme più innovative
e creative di quelle semplicemente
offerte dal consumo.
La seconda dimensione, quella
dell’accoglienza, rischia di venire soffocata
dall’egoismo metodologico
che la pedagogia implicita della cultura
contemporanea inevitabilmente alimenta:
si è sempre meno disposti ad
ascoltare, a dimenticarsi di sé stessi, a
fare spazio. Tutti presi dai propri progetti
(per lo più a breve termine) e dai
propri bisogni, si tende a vedere l’altro
come un ostacolo (o se va bene come
un mezzo) per la propria auto-organizzazione.
Si è sempre più chiusi alla
vita: i figli sono visti prevalentemente
in termini di costi e rinunce, e se va
bene come occasioni di “esperienza”
di cui non ci si vuole privare. A maggior
ragione tutto ciò che è vincolo impegnativo
(il malato, l’anziano, lo straniero
che ci vive accanto) viene rifuggito
e visto solo nella prospettiva di
quello che ci “toglie”. Non c’è da stupirsi
allora che le vite siano ripiegate
difensivamente su loro stesse, rattrappite
e asfittiche: senza l’apertura
all’esterno, all’imprevisto che mobilita
risorse che non sapevamo di avere,
all’altro che ci libera dalla prigione di
noi stessi. La famiglia oggi salta anche
perché si è individualizzata, si è chiusa
a tutto ciò che di spirituale ma anche
di relazionale può alimentarla, e così
rischia di rimanere un’istituzione-guscio,
sfibrata e disseccata.
Chiara Giaccardi
Mauro Magatti