«Il cuore di papà è ancora a Homs»

04/06/2013
Shady Hamadi, 25 anni, italo-siriano, ha scritto un libro per narrare la storia di suo padre Mohamed, 70 anni, che nel 1968 lasciò il Paese per sfuggire alla vendetta del regime di Assad. (Foto di Ugo Zamborlini).
Shady Hamadi, 25 anni, italo-siriano, ha scritto un libro per narrare la storia di suo padre Mohamed, 70 anni, che nel 1968 lasciò il Paese per sfuggire alla vendetta del regime di Assad. (Foto di Ugo Zamborlini).

Mohamed Hamadi ci accoglie nella sua casa a Sesto San Giovanni (Milano) avvolto in una lunga tunica scura, veste tradizionale siriana.  Mohamed ha 70 anni: gli ultimi 30 li ha trascorsi in Italia, dove è arrivato da esiliato. Ha lasciato la Siria nel 1968. Prima tappa il Kuwait, poi l'Irak, infine l'Europa. Una scelta obbligata, l'esilio: in quanto leader nel distretto di Homs del partito nazionalista arabo – opposto al partito Ba'th al potere – fu più volte incarcerato e subì la tortura da parte del regime di Hafez al-Assad (padre dell’attuale presidente Bashar). "Non posso immaginare le sensazioni che provò la sera della fuga. Era un ragazzo di 25 anni costretto a lasciare il proprio Paese, ad abbandonare la propria famiglia, perseguitato per aver osato pensare ad altro rispetto a ciò che imponeva il regime".
 
Con queste parole commosse suo figlio Shady ripercorre il cammino del padre nel libro La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana (Add Editore). Shady ha 25 anni, è italo-siriano (sua mamma, Grazia, scomparsa nel 2008, era italiana), studia Scienze politiche e dal 2011 è attivista per i diritti umani e una delle voci più autorevoli in Italia dell'opposizione al regime siriano. «Mio padre», racconta Shady, «è sempre stato molto reticente a parlare del suo passato. Ha cominciato a raccontarmi perché stavo scrivendo il libro, ma ha taciuto alcune cose. Da bambino quasi non sapevo che fosse siriano: lui si rifiutava di parlare con me in arabo, perché pensava che avrei subìto discriminazioni. Ha anche taciuto la verità sulla morte di mio nonno, Ibrahim, fino al 2006: solo allora, quando ero in Siria, ho scoperto che non era morto per un infarto ma perché assassinato da un uomo che era geloso di lui».

Dopo la morte della madre, nel 2009 Shady è partito. Destinazione Siria. Un lungo viaggio alla scoperta delle sue radici. «Perdendo mia madre, che rappresentava il legame forte con la mia italianità, ho voluto compensare questa perdita recuperando la mia parte siriana legata a mio padre». Mohamed ha lavorato nell’import-export, è stato anche consigliere comunale a Sesto. Ma quando i discorsi toccano la guerra, lui si chiude in un malinconico riserbo. "Ancora, a distanza di cinquant'anni e di infiniti dolori, alcune notti mio padre grida: ricorda gli amici scomparsi, rivive negli incubi i mostri della giovinezza", scrive Shady nel suo libro.

«Per un italiano è difficile sentire il dolore siriano», osserva Shady. «Ma io lo avverto profondamente. Sento il dolore di mio padre, perché l'esperienza della tortura ti cambia e si riverbera sui figli. Io la vivo sulla mia pelle. Il viaggio in Siria è stato un modo per esorcizzare il dolore. Ma ci vorrà tempo». Di recente Shady è stato in Libano, dove ha incontrato i profughi siriani. «La gente ha innescato la rivoluzione non perché indotta da forze esterne, ma perché è nella natura dell’uomo chiedere la libertà». Il caso siriano, del resto, è diverso da quello degli altri Paesi arabi: già prima del 2011 c'erano stati dei tentativi di cambiamento. «Nel 2000, quando salì al potere Bashar al-Assad, un gruppo di intellettuali si rivolse al nuovo presidente - che sembrava più aperto avendo studiato a Londra - per chiedere riforme e aperture. Un esempio? I telefoni cellulari e l'apparecchiatura satellitare, che era ancora illegale. Il regime concesse leggere aperture ma reagì poi con gli arresti. In seguito, nel 2005, vari esponenti dell'opposizione firmarono la cosiddetta "Dichiarazione di Damasco" nella quale si invocavano riforme.  Ma la richiesta ancora una volta finì con gli arresti».

Una chiesa greco-ortodossa nel villaggio di Dweir, vicino a Homs, danneggiata dalla guerra (Ansa).
Una chiesa greco-ortodossa nel villaggio di Dweir, vicino a Homs, danneggiata dalla guerra (Ansa).

Gli occidentali, spiega Shady, sono ancora convinti che il mondo arabo abbia bisogno di loro. «Pensano che gli arabi abbiano ancora una visione fatalista delle cose. Io credo, invece, che il cambiamento in atto stia portando alla ricostruzione dell’identità araba. Noi europei dobbiamo smettere di pensare che gli arabi non ce la possono fare senza di noi. Gli arabi stanno diventando di nuovo protagonisti e attori della loro storia. Questa è la loro felicità. E noi italiani in questo processo abbiamo un ruolo fondamentale: abbiamo una straordinaria risorsa che deriva dalla nostra storia. L'italiano è visto dal mondo arabo in modo diverso rispetto ai francesi o gli inglesi. Gli italiani non sono i conquistatori, sono guardati con molta più simpatia dagli arabi anche per una affinità storica, quasi come se fossero dei cugini. Noi italiani abbiamo dunque il compito di traghettare l'Europa a un incontro delle civiltà nel Mediterraneo. In questo momento il mondo arabo ha bisogno che la società civile europea che li ascolti». Certo, il percorso che i Paesi arabi stanno vivendo è difficile: «Bisogna lottare contro il pericolo della reislamizzazione della società. Ma tutto questo è un percorso che va compiuto e vissuto fino in fondo. Del resto, anche in Occidente la conquista della democrazia non sempre è stata semplice».

Nel suo libro, Shady non risparmia forti critiche nei confronti dei mezzi di comunicazione e del loro modo di coprire e raccontare la guerra siriana. E fa luce sul rapporto fra musulmani e minoranza cristiana in Siria, anche attraverso la storia della sua famiglia: "Da millenni in questo Paese la convivenza religiosa è un esempio per tutto il mondo arabo", si legge in La felicità araba. Durante la dominazione ottomana, ricorda il giovane attivista, i cristiani siriani venivano perseguitati: il suo bisnonno e gli altri abitanti del suo villaggio, tutti musulmani, nascosero i cristiani nelle loro case e nelle moschee per salvarli. La cosa inversa accadde durante il protettorato francese: i musulmani venivano discriminati e i cristiani nascosero molti di loro nelle chiese e nelle loro case. "Al mio bisnonno fu lasciato uno spazio senza raffigurazioni sui muri in una chiesa cristiana per pregare", scrive ancora Hamadi. Che ricorda la piccola comunità cristiana di Maaloula, vicino a Damasco, nella quale gli abitanti parlano ancora oggi aramaico e recitano il Padre Nostro nella lingua che usava Gesù duemila anni fa: esempio straordinario di quel rispetto per le fedi che in Siria non è mai venuto meno.

«Molti mi chiedono: esiste ancora speranza per la Siria?», aggiunge Shady. «A Homs, sotto assedio delle forze del regime da quasi un anno, i ragazzi girano video per le strade nei quali recitano commedie, si travestono e mostrano la loro vita quotidiana con l’arma dell’ironia. La risposta, allora, è sì: è proprio da qui, dai video dei ragazzi nell'assedio di Homs, che nasce la speranza».


Giulia Cerqueti

a cura di Fulvio Scaglione
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