08/04/2013
Dalla finestra di una delle palazzine occupate (Foto: Siccardi).
All’inizio erano un centinaio, ma il loro numero s'è ben presto quadruplicato. Ora sono già 400 (e la lista d’attesa ne conta altri 250): chi sa quanti altri potrebbero ulteriormente arrivare nelle prossime ore. Sono i profughi africani che occupano tre palazzine abbandonata dell’ex villaggio olimpico di Torino. Quasi tutti rifugiati politici o richiedenti asilo, per due anni sono stati ospitati in comunità e centri d’accoglienza, come previsto dal progetto Emergenza Nord Africa.
Ma il 28 febbraio, tra incomprensioni e anomalie burocratiche, l’emergenza è “scaduta” e loro si sono ritrovati in strada. Dopo notti all’addiaccio, alcuni hanno cominciato a sistemarsi in una casa provvisoria. Un tetto di fortuna, senza riscaldamento né gas e in condizioni igieniche difficili, ma pur sempre un tetto. Poi, il passaparola ha fatto il resto. Dove nel 2006 alloggiavano gli atleti arrivati a Torino per le Olimpiadi invernali, oggi restano stanze spoglie e inutilizzate, minacciate dal degrado, triste paradosso urbano. È qui che dormono i profughi, anche dieci in una stanza, su materassi improvvisati.
Sono in maggioranza uomini, ma ci sono anche una ventina di donne e 9 bambini. Sono un mosaico vivente di lingue e di culture, dal Ghana al Niger, dal Ciad al Mali, dalla Somalia al Burkina Faso. Sono musulmani, ma anche cristiani ortodossi e di varie chiese protestanti. La maggior parte di loro ha trascorso gli ultimi due anni in Piemonte, ma c’è anche chi sta arrivando da altre regioni, attirato dal miraggio di una casa. Che però è illegale e potrebbe essere sgomberata da un momento all’altro. Le difficoltà sono evidenti. Eppure, nonostante tutto, il clima è di grande collaborazione.
All’interno della casa vigono regole precise e tutti si danno da fare come possono: c’è chi pulisce le stanze e chi si occupa dell’inventario di cibi e vestiario. Colpisce lo strano connubio tra degrado e ordine, disagio e pulizia. I profughi sono aiutati da una ventina di giovani del comitato Solidarietà ai rifugiati, movimento spontaneo in cui convivono anime diversissime, dal mondo delle parrocchie alla galassia dei centri sociali.
«Servono – spiega Carlo, giovane insegnante d’italiano che fa parte del comitato – generi di prima necessità, soprattutto materassi, coperte, cibo, acqua e assistenza sanitaria». Tante le associazioni che si stanno mobilitando, molte di area cattolica, dal Cottolengo al Banco alimentare. E c’è la solidarietà dei residenti della zona, che arrivano portando pacchi di cibo e vestiti. «Ma l’emergenza – prosegue Carlo – non può durare per sempre. Bisogna in qualche modo dare una risposta alle rivendicazioni di queste persone, che non chiedono la carità, ma un lavoro».
Abdirahman, 27 anni, è nato in Darfur (Sudan), terra martoriata da una sanguinosa guerra. Inseguendo una vita migliore si è spostato in Libia, dove ha lavorato come falegname e come addetto alle pulizie in un supermercato. Ma nel 2011 la guerra lo ha raggiunto anche lì: ha visto i rastrellamenti di Gheddafi e, come migliaia di altre persone, è stato costretto a salire su un barcone assieme a sua moglie e suo figlio di 8 anni, alla volta di Lampedusa.
Da Lampedusa a Pavia, alla ricerca di lavoro, poi da Pavia a Torino, dove, sempre con la moglie e il figlio, ha trascorso diverse notti alla stazione di Porta Nuova prima di approdare nella casa occupata. La storia di Abdirahman ricalca quella di tanti altri: il denominatore comune è il passaggio attraverso la Libia di Gheddafi e lo sbarco sulle nostre coste: per molti una deportazione, la cosiddetta Emergenza Nord Africa, appunto.
Ibrahim, 25 anni, è originario del Niger. In Libia faceva il netturbino. Arrivato in Italia ha trovato ospitalità in un centro d’accoglienza per migranti a Settimo Torinese. Ma da quando l’emergenza è finita si è arrangiato dormendo in strada. Come Frank, classe 1987, ivoriano che in Libia aveva trovato un lavoro da piastrellista. Oggi per lui è difficilissimo immaginare un futuro: non sa dire se sia meglio rientrare nel suo Paese o restare qui. È la condizione drammatica di tanti rifugiati politici.
Accolti dall’Italia proprio in virtù del loro status (quindi non clandestini, ma cittadini regolari) si trovano intrappolati in una sorta di limbo. Qui non hanno un lavoro né un posto dove stare, ma non possono neppure andarsene, perché alle frontiere vengono identificati attraverso le impronte digitali e rimandati indietro.
«La nostra città ha una feconda tradizione di accoglienza – scrive in un comunicato monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino - ma non può essere lasciata sola ad affrontare una situazione che interroga ed esige l’impegno di tutta la nostra regione, oltre che del nostro intero Paese. L’importante è che non si risponda all’emergenza solo con provvedimenti tampone».
L’occupazione, soluzione estrema, non è priva di pericoli. «È una strada che non porta da nessuna parte», mette in guardia don Fredo Olivero (Migrantes), da oltre 30 anni al servizio degli ultimi. «Il rischio è di ridurre tutto all’assistenzialismo, trattando i rifugiati come dei pacchi, mentre queste persone avrebbero diritto a una residenza, anche sul piano legale. Soprattutto avrebbero bisogno di essere prese sul serio, aiutate ma anche responsabilizzate. Grazie al coordinamento Non solo asilo e alla rete di associazioni che vi aderisce, in quattro anni siamo riusciti a inserire 426 persone, sia singoli che famiglie, in contesti di lavoro e di studio. Ci sono storie di bambini rifugiati che vanno a scuola con i coetanei italiani, storie di solidarietà tra famiglie e integrazione vera. Oggi – prosegue don Fredo – anche a causa della crisi, a Torino il lavoro non si trova quasi più. Bisogna spostarsi altrove, nei piccoli comuni della provincia o della regione. E le istituzioni devono essere disponibili a collaborare. È una strada in salita, ogni giorno più difficile, ma non impossibile».
Annachiara Valle e Lorenzo Montanaro