25/08/2012
Rino Gattuso con la maglia del Sion (foto Ansa)
Bandiere viventi, nel campionato che
viene, ne sventolano ormai poche:
Francesco Totti, Javier Zanetti, Gianluigi
Buffon... Le altre sono partite in cerca di
un viale su cui allungare, economicamente e
psicologicamente, l’ombra del tramonto. Le
bandiere in carne e ossa, che tanto piacciono
ai tifosi tutto sommato ancora tentati di credere
che di una maglia anche indossata a pagamento
ci si possa innamorare, sono scomode
nel calcio contemporaneo.
Quando si intridono di sudore e non sventolano
più con la leggerezza dei vent’anni
vengono vissute da allenatori e società come
un peso: un’eredità greve, cui si deve in
qualche modo riconoscenza, ma che rischia
di rallentare la corsa verso i risultati (pretesi
tutti e subito, sempre e comunque).
Sono difficili
da mandare in panchina, perché si chiamano
pur sempre Alex Del Piero, Alessandro
Nesta, Rino Gattuso e tendono a rimandare
il tempo di finire arrotolate dietro scrivanie
da dirigenti. È un salto difficile, la scrivania,
presuppone la consapevolezza di essere diventati
improvvisamente adulti: non è facile
sostituire il pallone con la cravatta.
I campioni
sono bambini infiniti, non si rassegnano
facilmente a smettere di giocare.
Ma il calcio del 2012 corre: ha fretta di concludere
affari e risultati, non si perde in
smancerie romantiche.
Il mercato suona altrove
sirene di petrodollari, troppo allettanti
per essere ignorate e chi vive del gioco, magari
sporco e squallido, si adegua: si adeguano i
presidenti che comprano e vendono secondo
convenienza e fanno contratti sempre più
corti alle loro bandiere sdrucite che pure hanno
dato tanto (un modo come un altro per indurle
elegantemente a farsi da parte).
Si adeguano gli allenatori che fanno del loro
meglio per lasciare i debiti di riconoscenza
fuori dalla porta: chi ha dato ha dato, chi ha
avuto ha avuto, scurdammoce ’o passato, anche
se ha le sembianze di Alessandro Del Piero.
Si adeguano i calciatori, che si pongono sempre meno il problema di resistere alle offerte,
forse irrinunciabili, frenetiche e straniere
dei magnati del pallone che conta sul mercato
(aperto fino al 31 agosto).
Magari sarebbe
più elegante evitare di dire: «Era la maglia che
sognavo da bambino» a ogni giro di giostra.
Ma a chi gioca come Zlatan Ibrahimovic si perdona
la bugia al primo gol e se gli si allunga il
naso non si nota neanche tanto.
Resta il fatto che Alessandro Nesta gioca fasciato
nella maglia blu del Montreal Impact,
dall’altra parte dell’Atlantico, che Gattuso si
danna con la passione di sempre nel Sion ai
vertici del campionato svizzero e che Alex Del
Piero s’è dato qualche altro giorno di tempo
per decidere dove va a finire il cielo, se sarà il
caso di guadagnarne un altro pezzettino in
una nuvola straniera o tornare definitivamente
alla terra di tutti.
Risolto da tempo il problema
di mantenersi, resta (a tutti i grandi
pensionandi) quello di darsi un posto nel
mondo: un posto diverso da quello che spetta
ai reduci a vita, congelati nella foto eterna
di una gloriosa giovinezza perduta.
Attorno giovani calciatori crescono, l’ultima
amichevole della Nazionale, prima che si
faccia sul serio dal 7 settembre con la qualificazione
mondiale, ne ha visti in campo un
po’ e, pur perdendo, non hanno sfigurato. Di
Angelo Ogbonna (Torino), Mattia Destro (Roma),
Marco Verratti (Paris Saint-Germain) –
di cui si parla come il Pirlo del futuro – si sa
che hanno vent’anni o poco più e che come i
loro coetanei fuori nel mondo probabilmente
non avranno una maglia fissa, perché nel
calcio mordi-e-fuggi non si usa più.
E non solo perché non si trova più nessuno
capace di dire come fece un giorno Gigi Riva
«tenetevi i milioni io resto qui». Laddove
qui era Cagliari, la città che l’aveva adottato e
i milioni (in lire) quelli della Juventus che lo
voleva.
Oggi probabilmente nessuno lo direbbe
– forse neanche Riva, ma sarebbe bello
immaginare di sì –, perché nessuno capirebbe,
probabilmente nemmeno i tifosi che
amano vedere sventolare le loro bandiere a
vita, ma poi sono disposti ad ammainarle se
non servono più a vincere. Salvo gridare al
tradimento, se le bandiere se ne vanno di
spontanea volontà. Mai contenti dirà qualcuno.
Vero. Anzi no. Sono contenti di vincere.
Se occorre facendo finta di non vedere che se
n’è andato quel poco di romantico e di nostalgico
che c’era nel calcio che avevano sognato
da bambini.
O forse invece ha ragione Rino “Ringhio”
Gattuso che, dopo una vita a ringhiare in rossonero,
si chiede se non sia quello svizzero in
cui abita ora il calcio vero: «Dove devi farti le
cose da solo».
Come succede nella vita di tutti,
dove prima o poi anche i campioni arrivano.
Tanto vale allenarsi alla normalità, su un
campetto alla periferia del pallone: potrebbe
servire a non naufragare, tra qualche anno,
sulla prima isola degli (ex)famosi che passa.
Elisa Chiari