23/07/2012
Alex Schwazer si allena nelle campagne lombarde: 10 mila km l’anno nelle gambe. (foto Ansa)
Parola d’ordine: clausura. Lontano dalle
tentazioni, perché la marcia non perdona.
Se non le dai l’anima, ti molla.
Alex Schwazer lo sapeva da quando, ragazzo,
scalava camminando con quell’andatura
ondeggiante i vertici dell’atletica mondiale.
Ma solo dopo Pechino 2008 ha imparato la distanza
tra polvere e altari. Finché si va dalla
polvere agli altari, si sale in orizzontale, camminando,
con fatica ma crescendo; il percorso
inverso invece è verticale come un filo a
piombo: dall’alto non si scende, si cade.
Oggi Alex Schwazer guarda il suo successo
di Pechino, oro a 23 anni nella 50 km, e gli insuccessi
successivi (Berlino, Barcellona, Deagu...)
con una maturità diversa. Con un nuovo
distacco e con la consapevolezza di partire
per Londra accreditato della miglior prestazione
mondiale stagionale sulla 20 km e di
quella cosa che lui chiama semplicemente
“star bene” sulla 50 km, la sua preferita. Poi
si vedrà, ma intanto c’è una persona nuova.
– Che cosa vuol dire clausura, Schwazer?
«Una vita da monaco. Allenarsi, mangiare,
dormire, allenarsi. Allenarsi, mangiare, dormire,
allenarsi».
– Da Pechino a qui ha cambiato “conventi”,
perché?
«Quando ho lasciato Saluzzo, dove mi allenavo
prima, ho creduto di poter continuare
in Alto Adige, a casa mia. Ma non funzionava:
l’amico che ti tenta, la mamma che ti cucina,
troppe comodità. Per la marcia devi metterti
al livello dei tuoi colleghi dell’Est, che
hanno fame vera, entrare nelle loro scarpe,
imparare a pensare come loro».
– Dove ha trovato le scarpe dei russi?
«A Settimo Milanese, perché a Milano abita
Michele Didoni, il mio attuale allenatore,
la persona che mi ha dato fiducia quando
non ci credevo più. Lì capitano anche due settimane
filate di nebbia. Quando sono arrivato
mi sono detto: qui va bene. O dopo una
settimana torni a casa in lacrime dicendo che
non ne vuoi più sapere, o resti e affronti quello
che c’è da affrontare».
Alex Schwazer, trionfo nella 50 km di marcia a Pechino 2008. (foto Ansa)
– Che cos’ha affrontato?
«Diecimila chilometri l’anno: 250 circa a
settimana, prima arrivavo a novemila al massimo.
È normale, si cresce, ma ci vuole testa:
senza, non riesci a fare fatica oggi e andare a
dormire sapendo che domani ne farai altrettanta
e dopodomani di più. A volte, lo ammetto, ho sognato un lavoro d’ufficio, un cartellino
da timbrare, per sedermi: però una
delle cose che mi danno soddisfazione in
questo momento è la stima delle persone
che si allenano con me, non per i risultati ma
per la serietà con cui faccio il mio mestiere».
– In mezzo cos’è successo, ha perso la fame?
«Ero arrivato a Pechino crescendo sempre
un po’, in fondo inconsapevole: quando ho
vinto la mia prima medaglia ai Mondiali, nel
2005, sono partito credendo di arrivare 20°,
fin lì se ero forte fisicamente il resto veniva.
Dopo Pechino, invece, ero il campione olimpico,
uno che tutti cercano, da cui si aspettano
tutti che vinca sempre: mi allenavo ancora,
ma avevo altre cose, attorno un’attenzione
che non conoscevo. Andavo in gara e mi
dicevo: vinco. Ma non era più come quando
non mi conosceva nessuno».
– È per questo che si è isolato?
«È stato facile, se non vinci non ti cercano.
Ma questa tranquillità, questa assenza di distrazioni
è nelle mie corde. Non è che io sia
scappato, ma l’essere solo con me stesso ad
allenarmi, senza riflettori, mi fa stare bene».
– Il fatto che la sua fidanzata, Carolina Kostner,
sia un’atleta la aiuta?
«Sì, anche se le esperienze non sono sovrapponibili
perché sono discipline diversissime.
Però è fondamentale avere accanto
qualcuno che comprende i sacrifici e non te
li fa pesare, ma li rispetta e li capisce. Diversamente
sarebbe impossibile».
– Ha mai pensato di non farcela?
«Dopo che sono ripartito, dopo l’infortunio
al ginocchio, mai. Ripensare alla fatica
che avevo fatto per arrivare a Pechino mi ha
impedito di buttare al vento tutto il lavoro
che avevo fatto da ragazzo. Ma dopo Barcellona,
quando non riuscivo più ad apprezzare il
valore di una medaglia d’argento nella 20
km, mi sono chiesto che senso avesse tanta
fatica. È stato quello il momento più duro».
Europei di Barcellona, ritirato nella 50 km e medaglia d’argento nella 20 km. (foto Ansa)
- Nonostante l’argento, peggio dei Mondiali
di Deagu l’anno scorso, quando è arrivato
nono a due minuti dal primo?
«Sì. Senza Didoni forse non avrei accettato
di andare ai Mondiali sapendo di non essere
al 100%, a fare solo la 20 km con la prospettiva
di arrivare 15°. È stato bravo il mio allenatore
a imporsi; mi ha detto: “No, tu ci vai e
fai la tua esperienza anche se non sei in forma.
Finisci la gara, ti servirà”».
– Aveva ragione?
«Sì. Un atleta impara con il tempo a conoscere
le proprie sensazioni, a riconoscere
quelle che ha già provato. Didoni è una persona
di grande sensibilità, non si limita a dirti
“dobbiamo fare questo”, se capisce che
non ci sei con la testa ragiona con te finché
trova la soluzione. Sono fiero di averlo come
tecnico e come amico, se oggi vado a Londra
con una consapevolezza nuova lo devo anche
a lui. Quello che lui ha fatto a Deagu è la
prova che nemmeno il campione olimpico
può illudersi di fare da solo».
– A Londra si è iscritto a 20 e 50 km: che cosa
vorrebbe, medaglie a parte?
«Arrivarci esattamente come mi sono sentito
nelle ultime settimane. C’è chi dice che la
vita sia una specie di montagna russa che alterna
alti e bassi. Io adesso sento che sto salendo
ed è una bella sensazione, spero di conservarla
fino alla partenza. Se così sarà, partirò
con un sorriso».
– Si sente più forte rispetto a Pechino?
«Come persona sì. Sono più maturo, ho imparato
a soffrire: so che non devo avere paura
né del caldo, né del freddo, né della pioggia.
A Settimo ho sperimentato tutto e non
ho mai mollato».
– La sua soddisfazione, a parte vincere?
«Finire una gara con la coscienza a posto.
Non dovermi guardare dentro e pensare: potevo,
dovevo fare di più».
Elisa Chiari