11/10/2012
La sera dell’11 ottobre 1962 mi trovavo
negli studi della Rai di via Teulada. In
quanto direttore dell’Avvenire d’Italia,
e perciò presunto conoscitore di quel che faceva
la Chiesa, mi fu chiesto di preparare
un documentario di un’ora per spiegare
che cos’era il Concilio che stava iniziando.
La Rai ha avuto un ruolo determinante nel
far diventare il Concilio un fatto di popolo.
Essa aveva allora l’esclusiva delle riprese televisive
in Vaticano, e suo era il segnale che
veniva trasmesso in tutto il mondo.
Non
esistevano 900 canali, la Rai era da sola grazie
a un monopolio legittimato e giuridicamente
protetto. Se una cosa andava in onda
sul primo canale, tanto più alle 9 di sera
dopo Carosello, tutta l’Italia la vedeva.
Noi avevamo preparato un documentario
su quanto ha preceduto il Concilio, ricco
di riferimenti storici e interviste. Avevamo
appena finito di montare le immagini del
grande fiume bianco dei vescovi che la mattina,
col Papa, dal Portone di bronzo aveva
raggiunto la basilica. Aspettavamo di riprendere
qualche immagine in diretta da San
Pietro dove era preannunciata una fiaccolata
dei romani per festeggiare il Concilio.
Pensavamo di cominciare con una specie di siparietto dalla piazza, per poi subito trasmettere il documentario. Non era previsto che il Papa parlasse; le telecamere erano lì per via della cerimonia del mattino ed erano puntate sull’emiciclo.
Ciò spiega perché poi nel celebre filmato di quella sera, si vede sempre la fiaccolata e non il Papa che parla. Ma ci fu la sorpresa.
A Giovanni XXIII, che non voleva affacciarsi, don Loris Capovilla chiese almeno di osservare quello spettacolo dai vetri. Papa Giovanni guardò, si commosse, e cominciò a parlare: «Cari figlioli...». Per un attimo noi fummo esitanti, perché quel fuori programma intralciava la nostra messa in onda. Ma Luca Di Schiena, che come vaticanista della Rai aveva il controllo e la regia di quegli eventi, gridò: «Restate in onda, mantenete il collegamento!».
E così il mondo ebbe, in diretta, il discorso della luna, e ce l’abbiamo ancor oggi. Che cosa fu quel discorso? Nella memoria esso è rimasto come un episodio minore, collaterale e fortuito, buono soprattutto a testimoniare la tenerezza del Papa. In realtà in quel piccolo discorso c’era già tutto il programma del Concilio.
C’erano i segni del tempo (la luna!) che con la Pacem in terris e la Gaudium et spes sarebbero diventati il luogo teologico del rapporto tra il cristiano e la storia.
C’era il superamento messianico della distinzione tra padri e figli: «La mia persona conta niente», disse papa Giovanni, «è un fratello che vi parla, diventato padre per volontà del Signore; ma tutti insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio». Il Papa veniva tirato giù dalle vette inaccessibili su cui lo aveva posto il Vaticano I, e veniva rimesso nell’assemblea dei fratelli. E c’era l’identificazione del vero interlocutore del Concilio: era il popolo che si era riunito in quella piazza, entrato senza filtri e credenziali, il popolo di Dio, la Chiesa dei discepoli. Ma non era più una massa passiva, che dovesse solo ascoltare.
Il Papa disse a quel popolo di fare qualcosa, di non essere solo spettatore, di carezzare i bambini, di asciugare lacrime, di evangelizzare, di annunciare il Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, di «continuare a riprendere il cammino ». Allora non lo si è capito; ma oggi si capisce che ciò che voleva dire il Papa, era che il Concilio era fatto non per gli addetti al culto, ma per loro, per le donne, gli uomini e i bambini «del nostro tempo».
A cura di Alberto Chiara