22/07/2011
Andre Dubus
UN RACCONTO DI HEMINGWAY
L’università dell’Iowa, dove a partire dagli anni Trenta, grazie al poeta Paul Engle, si sviluppò una comunità bohemienne di scrittori e artisti e un importantissimo laboratorio di scrittura creativa, è stata da molti definita il “Greenwich Village” dell’Ovest. A metà degli anni Sessanta a frequentare la zona c’erano autori come Kurt Vonnegut, Richard Yates e Andre Dubus, autore che è stato definito da molti critici e scrittori americani come il “più grande autore di racconti della seconda metà del Novecento”.
Ad Iowa City serate passate a fumare, ubriacarsi, praticare l’amore libero, a parlare di libri scritti o da scrivere. Un’arcadia di poeti, prosatori, tradizionalisti, sperimentalismi. Dubus, come Yates, faceva parte dei “timidi” che giocavano a fare i duri. Perché quello, come disse la terza moglie di Dubus, era “un tempo in cui gli uomini non potevano essere sensibili”. Per questo uno degli autori più discussi era Hemingway. Anni dopo, Andre Dubus divenne celebre per le sue lezioni sull’autore de I quarantanove racconti. La sua spiegazione di In un altro paese lasciava gli studenti a bocca aperta.
Quando rimase vittima di un incidente e gli venne amputata la gamba sinistra, Dubus aggiunse un ulteriore tassello alla comprensione di quel racconto, ciò che dentro vi era di più vivo: il dolore fisico e tutte le sue conseguenze.
Nicola Manuppelli
Andre Dubus.
"Nell’estate del mio trentesimo compleanno, nel 1966, lessi parecchi
racconti di O’Hara, e anche di Hemingway. Di quest’ultimo il racconto In
un altro paese mi stimolò più di quanto al tempo non fossi disposto ad
ammettere. Era l’ultima estate che trascorrevo nell’università
dell’Iowa. Avevo una laurea di secondo livello in discipline artistiche
e, a partire dall’autunno seguente, un lavoro come insegnante nel
Massachusetts. Con mia moglie e i nostri quattro bambini ci saremo
spostati in agosto. Fino ad allora, vivemmo a Iowa City, dove insegnavo
retorica a due classi di studenti del primo anno, quattro mattine a
settimana, poi tornavo a casa, pranzavo e scrivevo.
Scrivevo nel mio
piccolo studio, sul lato anteriore della casa – una minuscola stanza con
grosse finestre, da dove guardare fuori, oltre il prato, verso
un’intersezione di strade ombreggiate da alti alberi. Mi sforzavo di
imparare a scrivere racconti e leggevo O’Hara e Hemingway con la stessa
attenzione con cui un carpentiere osserva una splendida casa costruita
da qualcun altro. In un altro paese divenne, quell’estate, uno dei miei
racconti preferiti, e lo è ancora oggi. Ma non riuscivo a capirlo in
pieno. “Di che cosa parla?” dissi a un amico, mentre con la macchina
giravamo attorno all’università. “Parla dell’inutilità delle
preoccupazioni” disse lui. La frase si depositò nella mia testa,
dissolvendo ogni perplessità.
Certo. L’inutilità delle preoccupazioni.
Ogni elemento andava al suo posto e formava un insieme coerente, e in
macchina col mio amico, mentre sfrecciavamo lungo la pista che
circondava l’università, vidi quel racconto come fosse un dipinto; una
delle immagini centrali era il fazzoletto di seta nera che copriva la
ferita dove un tempo c’era stato il naso del ragazzo. Nostro vicino di
casa era Kurt Vonnegut, il cui giardino era adiacente al mio. Viveva
dietro casa nostra, in cima alla collina. Un giorno, quell’estate, era
fuori sul prato o sulla veranda d’ingresso e per quattro volte ci
incontrammo mentre uscivo, ci facemmo un cenno e ci salutammo. La prima
volta, stavo tornando a casa dalle lezioni, con addosso dei pantaloni e
una camicia; la volta successiva avevo dei pantaloncini corti e una
maglietta, che mi ero messo per scrivere; poi pantaloncini da ginnastica
senza maglietta, per andare a guidare; e nel tardo pomeriggio, con
indosso un altro paio di pantaloni e un’altra camicia, mi diressi verso
casa sua per bere qualcosa insieme. Era seduto sulla veranda e, non
appena mi avvicinai, disse: “Andre, cambi più vestiti tu di una Barbie.”
Kurt Vonnegut.
Kurt non aveva un telefono. Quell’estate, il dipartimento di Inglese
ospitava una conferenza e, un pomeriggio un impiegato mi chiamò e mi
pregò di chiedere a Kurt di andare a ricevere Ralph Ellison quel giorno
stesso in aeroporto, e poi la signora Ellison in stazione. A lei non
piaceva volare. Andai fino a casa di Kurt, e raggiunsi la porta sul
retro. “Vogliono che andiamo a prendere Ellison in aeroporto, poi la
moglie in stazione.” “Perfetto. Guido io.” Più tardi arrivò in macchina
da casa, percorrendo il sentiero di mattoni. Montai sopra e vidi un
edizione tascabile dell’Uomo invisibile appoggiata tra i sedili.
L’aeroporto si trovava a Cedar Rapids, non molto distante. “Hai
intenzione di lasciare il libro lì?” dissi. “Lo sto facendo a lezione.
Ho pensato fosse ipocrita tirarlo via.”
Era un pomeriggio caldo.
Lasciammo la città e ci ritrovammo in autostrada. Il grano era alto e
verde sotto il cielo immenso del Midwest. “In realtà non hanno chiesto a
entrambi di andare a prendere Ellison. Solo a te.” “Lo sapevo.”
“Grazie. Dunque, come facciamo a riconoscerlo? Avviciniamo il primo nero
che vediamo scendere dall’aereo?” Kurt mi guardò. “Potremmo passargli davanti e fare finta che non riuscivamo a vederlo.”
“D’accordo. Può funzionare.” Il terminale era piccolo e rimanemmo fuori a
guardare l’aereo che atterrava e le persone che uscivano. C’era un uomo
di colore. Andammo da lui e Kurt disse: “Ralph Eleison” ed Ellison
sorrise e disse: “Sì”, e ci stringemmo la mano. Prendemmo le sue cose e
ci dirigemmo verso la macchina.
Mi sedetti di dietro, e guardai Ellison.
Si accorse subito della copia dell’Uomo invisibile, ma non disse nulla.
Mentre eravamo in viaggio lungo l’autostrada, guardò i campi di grano e
parlò con affetto dei tempi in cui cacciava fagiani da quelle parti in
compagnia di Vance Bourjaly. Poi afferrò il libro e disse: “È ancora in
giro.” Kurt gli disse che lo stava insegnando al suo corso, e io devo
avergli detto che lo amavo, perché era vero, ed è vero tuttora. Ma ciò
che ricordo è solo che guardavo Ellison e lo ascoltavo parlare. Kurt gli
chiese se gli andasse di bere qualcosa. A lui stava bene. Andammo in un
bar vicino all’università, e ci sedemmo in un séparé, Ellison e Kurt di
fronte a me, e ordinammo dei vodka martini. Parlammo di jazz e libri,
ed Ellison disse che prima di iniziare L’uomo invisibile aveva letto
quaranta volte La condizione umana di Malraux. Gli piaceva la
combinazione di melodramma e filosofia, disse, così come gli piaceva in
Dostoevskij.
Ordinammo altri martini e smisi di sentirmi timido. Guardai
Ellison negli occhi e dissi: “Sto rileggendo i racconti di Hemingway
quest’estate, e penso che il mio preferito sia In un altro paese.”
Sembrò commosso al ricordo, come era successo in macchina, mentre
parlava di quando andava a caccia con Vance. Guardandoci, iniziò a
recitare il primo paragrafo del racconto: “In autunno c’era ancora la
guerra…” […] Quando accompagnammo Ellison nella sua stanza al campus,
era già l’ora di andare in stazione per prendere la moglie. Kurt disse a
Ellison: “Come facciamo a riconoscerla?” “Indossa un vestito grigio e
porta un impermeabile beige.” Sorrise. “Ed è nera.”
Voler sapere
assolutamente di cosa parli un racconto, e riuscire a dirlo in poche
frasi, è pericoloso: può condurci a voler possedere una storia come
fosse una tazza. Sappiamo a cosa serve una tazza. Beviamo da essa, la
laviamo, la mettiamo su una mensola, e resta una cosa che possediamo e
controlliamo, a meno che non ci scivoli dalle mani e diventi soggetta
alla forza di gravità o qualcun altro non la rompa, o la usi per darci
tè avvelenato. Una storia può sempre rompersi in mille pezzi, anche
quando è dentro un libro, su uno scaffale, e, decenni dopo che l’abbiamo
letta, anche venti volte, può aprire in noi, con un taglio o una
carezza, una nuova verità.
Ho insegnato al Badford College nel
Massachusetts per diciotto anni, e il primo anno, e molte volte in
seguito, ho assegnato agli studenti In un altro paese. La prima volta
che ne parlai in classe, capii qualcosa di più di quel racconto, grazie a
ciò che gli studenti dicevano, e anche a ciò che dicevo io: parole che
non sapevo avrei detto, dando voce a idee che non sapevo avrei avuto, e
immagini che non avevo ancora visto nella mia mente. Iniziai dicendo che
il racconto riguardava l’inutilità delle preoccupazioni, e alla fine
della lezione, capii che non era così. Nei miei anni di insegnamento, ho
imparato a entrare in un’aula domandandomi che cosa avrei detto, più
che sapendo cosa dire. E ho imparato a sentirmi parlare: la fonte della
mia lingua era la misteriosa armonia con le verità che conosciamo, anche
se molto spesso lo ignoriamo. […]
Due anni dopo aver smesso di
insegnare, e vent’anni dopo quell’ultima estate a Iowa City, mi ritrovai
improvvisamente menomato dopo che un’auto mi si schiantò contro, e
rimasi in ospedale per quasi due mesi. Soffrii per il dolore e pensai
molto spesso a Hemingway, a tutto ciò che aveva scritto sul dolore
fisico e come fosse riuscito bene a descriverlo. Ma non era In un altro
paese il racconto a cui pensavo. Era Il giocatore, la monaca e la radio.
Era illuminante e nello stesso tempo divertente, perché tutte le volte
in cui avevo parlato di quel racconto con gli studenti, avevo superato
velocemente la parte sul dolore fisico per concentrami su quello
“metafisico”.
C’è molta filosofia in quella storia, ma avevo dovuto
provare la pena di stare in un letto d’ospedale, prima di capire che il
dolore fisico avesse più importanza di quanta gliene attribuissi. Avevo
sempre fatto una lezione di cinquanta minuti su quel racconto e ora mi
rendevo conto che le lezioni avrebbero dovuto essere due; la prima
avrebbe dovuto riguardare il dolore fisico. […] Pochi mesi dopo, in
inverno, scrissi a padre Bruce Ritter alla Covenat House di New York e
gli dissi che ero paralizzato e non avevo ancora imparato a guidare coi
comandi manuali, che le mie figlie più giovani non vivevano più con me;
che ospitavo a casa mia, senza compenso, un laboratorio di scrittura, ma
che i miei alunni avrebbero potuto trovare chiunque per fare ciò che
facevo, e che non avevano davvero bisogno di me; che mi sembrava, quando
non ero coi miei figli, di non essere più una parte utile del mondo.
Padre Ritter mi scrisse, suggerendomi di fare da tutor a un paio di
studenti delle scuole superiori. A Haverhill c’è una casa per ragazze
tra i quattordici e i diciotto anni. Sono sotto la custodia protettiva
dello Stato, per via delle cose che alcune persone hanno fatto loro.
Quell’estate telefonai e chiesi se volevano un volontario. […] Una sera,
nell’autunno del 1991, cinque anni dopo l’incidente, lessi In un altro
paese ad alcune di quelle ragazze e a una donna del personale. Era la
prima volta da quando ero rimasto paralizzato. Avevo in programma,
finito di leggere, di dire ciò che tante volte avevo detto agli studenti
del Bradford College. Mi interruppi spesso, durante la lettura, per
commentare immagini e cambiamenti tematici. E quando terminai, analizzai
ogni singola parte ancora una volta, fino a giungere alla spiegazione
delle righe finali del racconto.
“Il maggiore non venne all’ospedale per
tre giorni. Poi arrivò alla solita ora, portava una benda nera sulla
manica dell’uniforme. Quando tornò, appese al muro c’erano delle grandi
fotografie in cornice di lesioni di ogni genere, prima e dopo la cura
con le macchine. Davanti alla macchina usata dal maggiore c’erano tre
fotografie di mani come la sua che erano completamente guarite. Non so
dove il dottore fosse andato a pescarle. Da quello che avevo sempre
sentito dire, noi eravamo i primi a usare quelle macchine. Le fotografie
non contarono granché per il maggiore, che ora si limitava a guardar
fuori dalla finestra.” E allora, grazie ai miei cinque anni di agonia,
alle notti in cui avevo dormito sognando di camminare su due gambe per
poi risvegliarmi ogni mattina storpio, con le preghiere e la volontà di
scendere dal letto per affrontare la giornata, e dover imparare un nuovo
modo di vivere dopo aver vissuto quasi cinquanta anni con un corpo
intero: dunque, a causa di tutto questo, vidi qualcosa che non avevo mai
visto nel racconto, e non so se lo vide Hemingway quando lo scrisse o
in seguito o mai.
Ma era lì, anche in quel preciso istante, e con
passione e gioia sollevai lo sguardo dal libro, rivolto verso i visi
delle ragazze e dissi: “Questa è anche una storia di guarigione. Il
maggiore continua ad andare dove stanno le macchine. E non ci crede. Ma
ogni mattina scende dal letto. Si lava i denti. Si fa la barba. Si
pettina i capelli. Si mette l’uniforme. Lascia il posto in cui sta e
cammina verso l’ospedale, e si siede nelle macchine. Ognuna di queste
azioni è un allontanamento dal suicidio. Dalla disperazione. Guardatelo.
Tre giorni dopo sua moglie è morta, e lui si sta muovendo. È triste.
Non lo supererà. Lo supererà. La sua mano non guarirà, ma un giorno
incontrerà un’altra donna. E l’amerà. Perché è vivo.” Le ragazze mi
guardarono, annuendo con la testa, quelle ragazze che avevano sofferto e
soffrivano ancora; ma ora, quel lunedì sera, sedevano sul divano, e mi
guardavano felicemente mentre scoprivo una verità, o mentre era una
verità a scoprire me, quando finalmente ero pronto per lei".
Traduzione
di Nicola Manuppelli
Daniele Rubatti