Giovani: non solo rassegnati e passivi

I sociologi descrivono i giovani di oggi come "rassegnati", ma non tutti si bloccano sul pessimismo. Altri osano e regalano scossoni alla società.

Ricerca dei fattori

19/03/2012

Già si è accennato ai fattori (nostrani ed extra-nazionali) che possono aver innescato questa situazione. Tra di essi ve ne sono alcuni che chiamano in causa gli stessi giovani, come parte di un sistema che se non si rinnova velocemente rischia davvero di non trovare soluzioni alla crisi. Il riferimento in questo caso è a un Paese che per troppo tempo ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, aspetto questo che rapportato ai giovani significa che si sono coltivate aspettative di realizzazione sociale non congruenti con le condizioni di partenza o con le capacità acquisite nell’iter formativo.

Ciò per dire che molte famiglie (per i propri figli) e molti giovani (per sé) pensano “troppo in grande” rispetto agli sbocchi occupazionali che il sistema offre; e in questa linea esprimono domande che non incontrano l’offerta disponibile, alimentano attese che non hanno riscontro nella realtà, innescano bisogni che appartengono soltanto al mondo dei sogni. Negli ultimi decenni, troppe famiglie e troppi giovani sembrano aver perso il senso della realtà, in una società che da un lato ha svalutato il lavoro tecnico e manuale con l’idea che tutti possano svolgere lavori puliti e di concetto; e che dall’altro vede ridursi la quota di persone disposte a cercare il lavoro là dove esso c’è, mentre è lunga la fila di quanti sperano di trovarlo in linea con le proprie aspettative o in un “altrove” non meglio precisato. Il meccanismo coinvolge ovviamente gli apparati formativi e le scelte politiche in questo campo, a fronte di una scuola e di un’università sovente poco raccordate al mondo del lavoro e poco ricettive nel cogliere le istanze del cambiamento. Di questi tempi è calda la polemica sul valore del titolo di studio, sull’opportunità o meno di considerare la laurea come un criterio base nelle assunzioni nel pubblico impiego ecc.; tutte questioni dovute all’idea (magari discutibile) che i titoli di cui i giovani sono in possesso non abbiano lo stesso valore, che il riconoscimento debba andare non all’iter formativo formale ma ai contenuti acquisiti e al contesto in cui essi sono stati appresi; in altri termini, che in un mondo diseguale occorra premiare chi davvero offre e sa di più, piuttosto che una formazione standardizzata che non fa emergere le eccellenze.

Insomma, anche il sistema formativo (e politico) ha le sue responsabilità, quando è più orientato a tenere i giovani in una situazione di parcheggio che a offrire loro specifiche competenze e abilità; quando alimenta più una cultura della garanzia che quella del rischio; quando offre pochi stimoli ai giovani e non li sollecita al protagonismo perché non è in grado di innovarsi e di organizzarsi meglio. Intendiamoci: è ovvio che la causa prima della crisi occupazionale che ha investito in questi anni i Paesi occidentali è di natura economica, a fronte di un sistema che vive una crisi di sviluppo senza precedenti e della forte concorrenza che si è prodotta nel mercato del lavoro internazionale. In questo quadro, le Nazioni che prima escono dalla crisi sono quelle che hanno agito in modo lungimirante, investendo meglio le risorse a disposizione, razionalizzando l’esistente, riqualificando l’offerta formativa, puntando sull’innovazione ecc.; tutte scelte poco praticate dai Paesi più deboli, condizionati da squilibri (sia economici sia politici) che allontanano nel tempo le possibilità di ripresa e di sviluppo.

Insomma, anche il sistema formativo (e politico) ha le sue responsabilità, quando è più orientato a tenere i giovani in una situazione di parcheggio che a offrire loro specifiche competenze e abilità; quando alimenta più una cultura della garanzia che quella del rischio; quando offre pochi stimoli ai giovani e non li sollecita al protagonismo perché non è in grado di innovarsi e di organizzarsi meglio. Intendiamoci: è ovvio che la causa prima della crisi occupazionale che ha investito in questi anni i Paesi occidentali è di natura economica, a fronte di un sistema che vive una crisi di sviluppo senza precedenti e della forte concorrenza che si è prodotta nel mercato del lavoro internazionale. In questo quadro, le Nazioni che prima escono dalla crisi sono quelle che hanno agito in modo lungimirante, investendo meglio le risorse a disposizione, razionalizzando l’esistente, riqualificando l’offerta formativa, puntando sull’innovazione ecc.; tutte scelte poco praticate dai Paesi più deboli, condizionati da squilibri (sia economici sia politici) che allontanano nel tempo le possibilità di ripresa e di sviluppo. Tuttavia, anche nelle economie più precarie non mancano possibilità occupazionali, e il fatto che molti lavori “nostrani” siano appetiti soltanto dagli immigrati stranieri è un indizio della refrattarietà dei giovani autoctoni a operare scelte realistiche in attesa di traguardi incerti o velleitari.

Franco Garelli
Roberta Ricucci

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