03/03/2011
Ore 14,30. Lezione di regole. Siamo in una scuola media della Brianza, tra Milano e Lecco. Una delle tantissime che Gherardo Colombo frequenta da quattro anni, nel ruolo di un maestro sui generis: da quando, cioè, ha deciso di lasciare la Magistratura per provare a riparare il rubinetto che perde nella giustizia, andando all’origine del guasto, cioè al senso civico che latita. E così rimbalza da una scuola all’altra su e giù per la Penisola, per parlare di regole con i ragazzi: non “ai” ragazzi, ma “con” loro. Perché in queste lezioni né le parole, né le regole arrivano dall’alto: si dialoga, si scherza anche, si prova a discutere insieme, si stimola il ragionamento, in modo che ciascuno alla fine arrivi a risolvere con la propria testa il problema posto.
A guardarlo, mentre dialoga, Gherardo Colombo evoca, forse ignaro forse no, qualcosa della maieutica di Socrate, qualcosa della pedagogia di don Lorenzo Milani: un po’ provoca, un po’ guida. Rompe il ghiaccio chiedendo ai ragazzi di quando si finisce, delle vacanze che verranno a giugno anche per lui che va a scuola quasi quanto loro. Fa il conto delle loro tante troppe domande preparate e del tempo a disposizione.
E poi comincia: «Va bene: tanto tempo per le domande, però due cose per cominciare dobbiamo dirle. Quando sentite la parola regola, che reazione avete?». Si alza un suono indistinto che è l’onomatopea dell’insofferenza.
Colombo interpella un ragazzo dandogli del lei, che a 11-14 anni, come hanno qui, è un modo di responsabilizzare senza dire, un segno paritario con cui ci si rispetta trattandosi da adulti: «Lei che ne pensa ?». «Boh». «Le regole non influiscono sulla sua vita?». «No». «A che ora si alza?». «Alle 7.30». «Perché?»” «Boh”». «Di nuovo boh, lei è una persona di carattere, mi batta un cinque. Non sarà perché alle otto bisogna essere a scuola? Ecco, l’obbligo scolastico è una regola che incide sulla vostra vita». Altro brusio di insofferenza.
Sei stato tu?. Un libro scritto da Colombo con Anna Sarfatti sulla Costituzione attraverso le domande dei bambini.
«Rispettare le regole dà fastidio?». Coro di sì. «Una regola dice che a una certa ora si fa l’intervallo, vi dà fastidio?», interpella di nuovo il sostenitore del boh: «No». «Niente boh stavolta? La pensavo più coerente. Allora: ci sono regole che ci aiutano e regole che ci obbligano. Lei che ha fatto a questo ginocchio?». Distorsione». «Ahi, ne avrà per un bel po’». E l’hanno assistita quando è andato al Pronto soccorso?».«Sì». «Come si chiama?». «Riccardo». «Che le è parso della regola che dice che tutti hanno diritto all’assistenza? Che le sarebbe parso se le avessero detto, invece: no, Riccardo no, non curiamo quelli che hanno un nome che comincia per “r”?».
Si comincia a ragionare. Ci si chiede che cosa accadrebbe se domani decadesse l’obbligo scolastico e, arrivando, al posto della scuola si trovasse un prato, prospettiva, in apparenza, allettantissima. Che si fa? «Quello che voglio» suggerisce uno, «Gioco al pallone» replica un altro. «Per quanto? Un giorno, due, tre… poi a un certo punto padri e madri comincerebbero a chiedersi del destino di un figlio nullafacente: com’è che noi lavoriamo perché anche lui mangi, si vesta, vada in vacanza e lui non fa niente? Da domani anche lui contribuisce, il panettiere cerca un ragazzo che porti il pane. Ecco, era così che funzionava finché non c’è stato l’obbligo scolastico. Il compito di un ragazzo è studiare finché esiste la scuola. Dove non c’è, è così che va finire».
La soluzione del problema spiazza. Si ricomincia: «A voi piace essere liberi?», «Sììììì».«In che cosa consiste la libertà? «Che faccio quello che voglio», azzarda uno dal fondo. «Poter scegliere», replica un’altra sulla destra. «Mi batta un cinque: scegliere. Solo chi è libero può scegliere. Chi non è libero ha qualcuno che sceglie al posto suo. Senza sapere non so scegliere. In questo posto, che non conosco, non saprei scegliere da solo neppure dove mangiare una pizza. Devo affidarmi. Chiedo a lui. E lui ha tre possibilità: può consigliarmi spassionatamente quella che considera migliore. Ma può anche spedirmi alla pizzeria di suo fratello che non sa fare le pizze ma gli allunga dieci euro se procaccia clienti. Oppure può mandarmi, perché gli sto antipatico, nella peggiore che conosce. Come vedete, se non so, sceglie lui per me».
Il sillogismo si fa da solo: andando a scuola si impara, chi ha imparato sa, chi sa sceglie. «Allora come la mettiamo? Non vi piace l’obbligo scolastico ma vi piace la libertà?».
È solo l’inizio. Si va avanti per due ore, in cui non ci si distrae quasi mai. Tante, disparate, le domande: si parla di che cosa vuol dire fare il magistrato, di quanto costi emotivamente decidere di condannare uno alla prigione, perché ha commesso un reato, sapendo che così si toglierà al suo bambino la vicinanza del papà. Si prova a capire che cosa sono i reati dei colletti bianchi, che cosa vogliono dire la legge uguale per tutti e la pari dignità, quando poi si torna a casa e si mollano due schiaffi al fratello più piccolo che guarda la Tv per strappargli il telecomando e imporgli un altro programma. Sono ore che volano.
La campanella è suonata. Ci aspetta un treno per Milano. L’ennesimo dell’infinito peregrinare che è ormai la vita di Gherardo Colombo. La stazione è piccola, a occhio non vecchia, ma trascurata. All’interno della sala d’aspetto un cartello scritto a mano invita a chiudere la porta. Gherardo Colombo si accosta e chiude. Ma la porta non ci sta. Lui si riaccosta e richiude, stavolta con più energia. La porta si apre di nuovo. «Che paese sciatto…» ma si avvicina ancora e riaccosta per la terza volta la porta, accompagnandola. La porta, finalmente, resta chiusa. Durerà solo fino al prossimo passaggio, ma anche questo è un modo di non arrendersi a quello che non va.
Elisa Chiari