La legge di Dio e le leggi degli uomini

Intervista all'ex giudice Gherardo Colombo: i Comandamenti agli occhi di un magistrato laico protagonista di molte inchieste importanti sul malaffare.

03/03/2011

Fabrizio De André, in una canzone dura, definì un giudice “arbitro in terra del bene e del male”. Ma non è per questo ruolo, ammesso che si possa davvero accettare questa definizione,  che abbiamo scelto Gherardo Colombo per parlare dei  Dieci comandamenti, cioè di un codice, di un sistema di regole. L’abbiamo fatto perché dal 2007, da quando si è congedato, a 61 anni, dalla magistratura, Colombo ha trasformato le regole della convivenza tra persone e il loro significato in un impegno che è quasi una missione civile: ogni anno presta le sue parole a oltre 400 incontri – sì più di uno al giorno – per trasmettere ai cittadini, soprattutto ai più giovani che al momento ancora vanno a scuola, il senso delle regole nella vita quotidiana, l’esigenza di rispettarle non per imposizione  ma per convinzione come un esercizio di libertà.       
Dottor Colombo, che cosa rappresentano i Comandamenti,  nel sostrato culturale della nostra società, indipendentemente dalle convinzioni di ciascuno?
«E’ difficile dirlo, in generale, perché basta guardarsi intorno per accorgersi che anche in un Paese considerato fortemente cattolico come il nostro, l’interpretazione dei Comandamenti è assai varia. Molte culture che si rifanno al cristianesimo, al cattolicesimo, mostrano differenze molto forti tra loro. Lo stesso percorso storico della Chiesa è fatto di interpretazioni differenti, mutate nel corso dei secoli. C’è stato il tempo delle crociate: qual era il loro rapporto con “non uccidere”?».
Significa che nessuna regola passa immutabile al vaglio della storia?
«Non c’è una base comune di regole che non venga modificata nel corso complessivo della storia. Per dire, oggi sembra ovvio il comandamento di “non uccidere”. Eppure al tempo dei romani esisteva lo jus vitae ac necis, per cui il padre poteva decidere se il figlio doveva vivere oppure no».  
Dal punto di vista laico, i Comandamenti – escludendo primo e terzo che presuppongono una fede – possono rappresentare una sorta di codice universale?
«La mia opinione personale è che i Dieci comandamenti, nei quali prevalgono i divieti, siano il punto di inizio di un percorso che ha un punto d’arrivo in: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Si passa da un obbligo di non fare ad un’esortazione ad agire. Credo che per un laico, dietro questa regola finale, ci sia forte l’indicazione del rispetto nei confronti degli altri, indicazione che nel nostro Paese coincide con il punto di partenza, la base estrema della Costituzione. Rispetta la dignità degli altri come la tua è diventata per noi una legge positiva dello Stato, il punto di riferimento essenziale di tutte le leggi».

Scrivendo il saggio dal titolo Sulle regole, pubblicato per Feltrinelli, lei individua due modelli di società che si contrappongono e si intersecano. In che modello abitiamo?
«La società si organizza in due modi: uno, verticale, vede la distribuzione disuguale e discriminata di diritti e doveri, come in una piramide dove chi sta in alto può chi sta in basso deve. L’altro, orizzontale, contempla la distribuzione paritaria di doveri e diritti. La nostra Costituzione è fortemente indirizzata verso il secondo modello, ma  spesso le regole non vengono rispettate, sicché una società che sarebbe orizzontale, secondo la Costituzione, si trasforma, per il comportamento trasgressivo dei cittadini, in società verticale, in cui prevale la discriminazione».  
Se noi immaginassimo una società che segue il Decalogo alla lettera, che tipo di modello troveremmo?
«Mi viene in mente Fabrizio De André: “Onora il padre, onora la madre, onora anche il loro bastone”. Dipende dall’interpretazione. Onora il padre e la madre, quando onorare significa rispettare, ha per me un contenuto estremamente positivo. In una società orizzontale il rispetto deve essere bidirezionale, presuppone reciprocità. Il modello di società dipende molto dall’interpretazione che del Decalogo si dà. Si pensi alla frequenza con cui i mafiosi di calibro si attribuiscono una stretta relazione con la religione. Evidentemente interpretano la religione come perlomeno compatibile con una società fortissimamente gerarchica, basata sul comando e sull’obbedienza. Gli spunti che presuppongono una interpretazione opposta sono tantissime: ci sono persone, come Don Lorenzo Milani, che hanno inteso  il Vangelo come base  di una società nella quale le persone sono sullo stesso piano”. 
C’è un comandamento che rappresenta molta vita per chi ha lavorato nel suo campo: la falsa testimonianza, che cosa rappresenta per un magistrato?
«I rapporti interpersonali sono basati sulla fiducia, quando questa viene meno saltano le relazioni. Anche la falsa testimonianza incrina la fiducia, ma la situazione processuale comporta effetti diversi, perché il rapporto tra magistrato e testimone è squilibrato a favore del primo. La falsa testimonianza è una specie di imbroglio, ma non si può fare di ogni erba un fascio, il codice penale ammette che non sia punibile chi testimoni il falso “Per essere stato costretto dalla necessità di salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore”.  Il magistrato ha da considerare la falsa testimonianza uno degli aspetti possibili della  professione, e da rimanere asettico anche nei confronti di questa».  
Il nostro tendere a percepire la regola come un divieto ci rende insofferenti, mentre lei scrive di regole come di uno strumento di libertà…
«Non credo che sempre le persone siano insofferenti alle regole che pongono divieti (e cioè che impongono obbedienza): la mafia ha regole molto rigide, pretende addirittura un giuramento di affiliazione, eppure c’è chi è disposto a prendere questo impegno. Nel 1992 è stato scoperto un sistema di corruzione e quel sistema aveva in quanto tale delle regole molto precise e molto osservate. Siamo, invece,  curiosamente insofferenti alle norme che, se applicate, realizzerebbero una società in cui tutti hanno pari diritti».

Che cosa rende ostiche proprio queste, che sulla carta moltissimi sottoscriverebbero ma non osservano?
«Credo varie cause, ma particolarmente due.  Primo: la società in cui le persone sono egualmente libere richiede impegno a tutti per la sua realizzazione. La società non è impegnativa quando uno comanda e gli altri obbediscono. Si tratta di una società semplice, accettata con una certa facilità perché esclude la responsabilità (chi obbedisce non è responsabile, mentre chi è libero, chi sceglie quello che fa è responsabile delle sue scelte). Secondo: vige la convinzione, magari inconsapevole, che una società delle pari opportunità sia utopica. Ci si giustifica dicendo: sarebbe bella  ma non è possibile e allora ci comportiamo diversamente».  
Il nostro Paese, rispetto ad altre culture, ha minore senso dello Stato, maggiore insofferenza alle regole. Si è fatto un’idea della ragioni di questa peculiarità?
«Credo che c’entri il fatto che siamo un Paese molto giovane, che in molte parti porta il retaggio dell’insofferenza alle regole imposte da dominazioni straniere, regole non fatte per la collettività. Credo c’entri anche il fatto che non sia passato in Italia il vento della riforma protestante, perché si è trattato di un moto che ha riguardato molto la responsabilità delle persone. Io credo che nel nostro Paese si tenda molto poco ad assumersi responsabilità, che si faccia fatica a crescere, come se si avesse sempre bisogno di una mamma che si prende cura, che ha la responsabilità, perché è molto comodo. Anche per queste ragioni è molto scarso il senso della comunità, e se manca il senso della comunità è ben difficile che si rispettino le regole, non se ne capisce l’importanza».  
Come spiega ai ragazzi questa importanza?
«Non spiego, dialogo con loro. Cerco di sorprenderli e di interessarli coinvolgendoli da protagonisti. I ragazzi sentono quasi naturalmente le regole come coercizione e per questo le trovano antipaticissime. Facciamo un percorso alla ricerca di regole che diano possibilità, che aiutino invece di costringere, scopriamo che non si può vivere insieme senza regole, che viviamo continuamente nelle regole, ma che le regole sono molto diverse tra loro. Cerchiamo di trovare il sistema per valutarle, per sapere quali sono quelle che ci farebbero vivere meglio. Incontriamo la Costituzione, ne constatiamo la novità rispetto al passato e le possibilità che offre a tutti di essere liberi tanto quanto gli altri, di potere tanto quanto gli altri, purché però la rispettiamo. La Costituzione è permeata di senso della comunità, ragionando e approfondendo si arriva a capirne l’importanza».

Elisa Chiari
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