11/03/2011
Il cardinale Gianfranco Ravasi.
LA STORIA DI UN INCONTRO INATTESO
IL PATTO CHE DONA LA LIBERTÀ ALL'UOMO
“Al terzo mese dall'uscita dall'Egitto, la terra della schiavitù, gli Israeliti arrivarono al deserto del Sinai e si accamparono davanti al monte. Dio pronunciò allora queste parole», Il monte, la solitudine del deserto, un popolo in marcia, una voce: è in questa cornice che il libro dell'Esodo traccia la storia dell'incontro inatteso tra Dio e l'uomo. Una linea verticale (Dio e il monte) e una orizzontale (il popolo e il deserto) si incrociano proprio nel cuore della religione.
La Bibbia usa il linguaggio colorito del mondo orientale: il Signore-Re sta stipulando un trattato diplomatico col suo principe, l'uomo; Dio si lega a un impegno, è il dono della libertà che continuerà a offrire all'umanità, come un giorno l'ha offerto ad Israele «facendolo uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,2). E il popolo risponde col Decalogo, le dieci grandi risposte al Dio alleato, vicino e non più relegato in cieli lontani e nebulosi, separati dalle nostre ore e dai nostri giorni.
La prima parola che Israele vuole vivere nella sua esistenza è la base e il sostegno di tutte le altre nove. Tra poco ascolteremo questa “parola” nella formulazione precisa del libro dell'Esodo. Ma se vogliamo già intuirne il valore, immaginiamo una costellazione i cui sette astri siano altrettanti verbi luminosi disseminati nelle pagine della Bibbia: amare (Deut 6,5), ascoltare (Deut 6,4), aderire (Deut 10,22), ricordare (Deut 8,8-9) per cui l'apostasia sarà un "dimenticare", servire (Gios 24), temere (Deut 6,2.13), seguire il Signore, marciando con bui (Deut 6,14). Nella liturgia antica l'ebreo ascoltava un interrogativo. Anche noi siamo invitati ad ascoltarlo e a rispondere. «Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l'ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima?» (Deut 10,12).
LA “PRIMA PAROLA”
La prima, decisiva risposta dell'uomo a Dio è la fede ed è raccolta nel primo "'comandamento". Di esso la Bibbia offre tre formulazioni che sono come sfaccettature diverse d'una stessa pietra preziosa (Es 20,3-5).
La formulazione teologica: «Non avrai altri dèi di fronte a me». È la solenne dichiarazione del monoteismo. «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!» recita ancora l'ebreo credente.
La formulazione pastorale: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra". Israele è un popolo senza arti pittoriche o plastiche. Se vuoi cercare l'immagine più splendida e più somigliante a Dio sulla terra - dice la Bibbia - non devi ricorrere a una statua fredda o a un vitello d'oro, simbolo della forza e della fecondità (Es 32), devi invece guardare il volto di un uomo, del tuo fratello, perché «Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).
La formulazione liturgica: «Non ti prostrerai davanti agli Ìdoli, né li servirai». “Prostrarsi” è l'atto orientale dell'adorazione. Come nel giorno glorioso dell'ingresso nella Palestina, la terra della libertà, Israele deve sempre ripetere la sua professione di fede: «Noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio!» (Gios 24,18).
Ora Israele sta identificando la fisionomia del volto di Dio. La Bibbia la disegna con due tratti espressi col pittoresco linguaggio orientale (Es 20,5-6).
La “Gelosia” di Dio: «Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso». Dio è intransigente ed esclusivo, non tollera che la sua "eredità" più preziosa, l'uomo, gli sia alienata e passi sotto altri padroni. Dice ancora la Bibbia: «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Deut 4,24). Ma c'è anche una sfumatura di tenerezza in questa frase: Osea, un profeta dal matrimonio in crisi, la intuirà e la annunzierà. Israele è una sposa che ha abbandonato suo marito. Ma il Signore tradito continua ad attenderla presso il focolare abbandonato. Il suo dolore non offusca la speranza del ritorno: «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suo cuore» (Osea 2,16).
Un'altra linea della fisionomia di Dio si rivela nel suo atteggiamento nei confronti del peccato, realtà che si snoda attorno a due poli, la mia responsabilità personale e l'influsso che il mio male esercita ramificandosi nella società. Ascoltiamo la dichiarazione di Dio: «Io punisco la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, ma dimostro il mio favore fino a mille generazioni per quelli che mi amano». Dio è “irrazionale”, non applica la rigida norma della giustizia. L'uomo è irrazionale nell'odio, Dio è irrazionale nell'amore: una punizione che si espande in quattro generazioni, un favore che si estende fino alla millesima generazione.
UN DITTICO ESEMPLARE DI OSCURITÀ E DI LUCE
A questo punto si pone un interrogativo molto semplice: questa prima "parola" antica, dispersa all'orizzonte di almeno tre millenni trascorsi sulla scena di questo pianeta, che significato ha per noi, oggi? È solo una pagina polverosa d'archivio o un messaggio adatto anche alla giornata che abbiamo appena iniziata? Cerchiamo di immaginare un dittico, cioè due tavole dipinte raccolte in unità da una cerniera. La prima ha tinte fosche, è la scena del rifiuto, del dio falso.
Il primo comandamento è un atto di accusa contro la moderna idolatria i cui feticci si chiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso, sfruttamento. Dio ci ricorda che questi "re-feticci" che adoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano come la scia d'una nave nel mare o come nuvola che si dissolve al calore del sole (Sapienza 5,10-14).
Il primo comandamento è un atto d'accusa contro l'indifferenza in cui vive la società del benessere: Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. È il trionfo d'un ateismo comodo che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l'ansia della ricerca, l'inquietudine della coscienza per curvarsi solo su interessi limitati, per affidarsi solo a piccole e pallide lampade anziché lasciarsi guidare dallo sfolgorare del sole, come diceva S. Agostino.
Il primo comandamento è un atto d'accusa contro le immagini errate di Dio che noi ci costruiamo. Ridotto a un oggetto che possiamo manipolare secondo i nostri interessi, Dio è diventato, come scriveva Bonhöffer (un credente martire nei campi di concentramento nazisti) un “tappabuchi” o una Medusa che cambia secondo la nostra volontà. E invece, «io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, non il Dio dei morti, ma dei vivi!» (Matt 22,32).
La scena di luce è tutta riassunta nella preghiera di Mosè: «Mostrami il tuo volto, o Signore!» (Es 33,18).
Il primo comandamento è un invito alla conoscenza di Dio. Il "conoscere" nella Bibbia è il verbo dell'amore sponsale: una conoscenza, quindi, fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sentimento e di azione. Non basta conoscere Dio, bisogna riconoscerlo, cioè amarlo. Magari anche attraverso un lungo itinerario di ricerca: anche per Israele Dio è una luce che si svela lentamente Fino alla pienezza del Cristo, “stella del mattino” (Apocalisse 2,28).
Il primo comandamento è anche un invito alla coerenza gioiosa nella vita. Perciò il culto e la fedeltà che si danno a Dio non devono essere simili alla tassa versata con amarezza al fisco di Cesare (Matt 22,21)
Il primo comandamento è un invito a scoprire dietro l'aspetto fragile e persino odioso del prossimo il profilo di Dio. Dobbiamo amare l'uomo, “immagine di Dio” e luogo dell'incontro vivo con Dio. Infatti, il Signore stesso ha così confessato al suo popolo: «Quando Israele era giovinetto io l'ho amato, io gli insegnavo a camminare tenendolo per mano, avevo cura di lui, ero per lui come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi inchinavo su di lui per dargli da mangiare». (Osea 11,1.3-4).
Gianfranco Ravasi