29/03/2011
Il rapporto tra l'uomo e il Signore richiede
il tempo dedicato al riposo e alla santificazione.
Ripubblichiamo l'articolo del teologo Secondo Mazzarello,
scritto per Famiglia Cristiana n.8 del 20 febbraio 1977.
Ecco la sua interpretazione del terzo Comandamento
L’Antico Testamento è tutto dominato da un grande fatto, a cui di continuo si riportano i vari libri della Bibbia, specie quelli poetici e quelli profetico-sapienziali. È il passaggio prodigioso o “pasqua” degli Ebrei attraverso il mar Rosso; evento davvero straordinario, che iniziato con l'insperata liberazione dall'oppressore, e concluso, per iniziativa di Dio, con la stipulazione dell’”alleanza” nel sangue degli animali immolati ai piedi del Sinai, fece degli Ebrei il popolo di Dio, depositario ed erede delle sue promesse.
Fu proprio la riflessione su questo grande evento "pasquale", che portò gli antichi Ebrei ad affermare la loro fede saldissima in Dio creatore. Soltanto Colui che con tanta potenza era direttamente intervenuto in loro favore, poteva essere l'autore del cielo e della terra e di tutti gli esseri che cielo e terra contengono. Di qui, da questa riflessione, la descrizione poetica che il primo libro della Bibbia, la Genesi, fa dell'opera creatrice, con la meravigliosa epopea dei sei giorni; di qui anche il richiamo esplicito, in quella descrizione, all'ultimo giorno - il settimo - quando Dio vide che tutta la creazione era “buona”, e “si riposò” da quanto aveva così mirabilmente compiuto.
Richiamo non casuale. Quel "riposo" di Dio doveva essere in qualche modo ripreso dal suo popolo. La sosta da ogni lavoro, prescritta dalla legge mosaica il settimo giorno, si riportava in tal modo settimanalmente al gran “riposo” di Dio, e ribadiva quindi l'impegno di dedicare a lui e al suo culto il tempo sottratto al solito lavoro di tutti Ì giorni. Il settimo giorno divenne così per gli Ebrei giorno di festa, in quanto “santificato” dal riposo: un riposo però che si riconnetteva all'opera della creazione, e non doveva quindi esser fine a se stesso, ma esprimersi nella lode e nel ringraziamento a Dio, creatore del mondo e salvatore potente del suo popolo.
Anche il Nuovo Testamento è tutto dominato da un grande fatto: un fatto che non solo si riconnette a quello antico, ma ne costituisce la maturazione piena e il definitivo compimento. E quello dell’”esalta-zione” di Gesù nella sua morte redentrice e nella sua risurrezione: fatto esso pure e a pieno titolo “pasquale”, perché liberazione della vera schiavitù, quella del peccato, e stipulazione della nuova ed eterna alleanza, non nel sangue di animali immolati, ma in quello del Figlio stesso di Dio, l'Agnello senza macchia, che si addossa il peccato del mondo, per toglierlo e cancellarlo.
Veniva così costituito il nuovo popolo di Dio, quello in cui le antiche promesse si sarebbero finalmente avverate e realizzate in una dimensione perfetta. Non ci fu bisogno però che sul nuovo fatto pasquale indugiasse a lungo la riflessione del nuovo popolo di Dio, per cogliere in esso quella manifestazione massima dell'onnipotenza di Dio che è la sua misericordia “ricreatrice”. Ci pensò il Figlio stesso di Dio a lasciare, di questa nuova creazione, un segno fattivo, che ne estendesse nel tempo e nello spazio l'attualità perennemente efficace.
E fu il segno di una riunione conviviale, nella quale il pane e il vino dovevano ripresentare sulla mensa, diventata un altare, il corpo “dato” e il sangue "versato" per la salvezza del mondo. Ed ecco la nuova festa, quella cristiana; non tanto la legge di un riposo che, ricollegandosi alla fase conclusiva della creazione, richiamasse il dovere di esprimere nel culto la lode e il ringraziamento, ma il “bisogno” di riunirsi nel rendimento di grazie per la grande “ora” in cui era iniziata la nuova creazione: un rendimento di grazie così cultualmente evocativo e ricco, che avrebbe fatalmente finito con l'avvalersi esso pure della disponibilità di un giorno di riposo.
Ecco dunque, di fronte al sabato ebraico, la domenica cristiana. Il sabato era il giorno settimanale del riposo, che richiamava il dovere del culto. La domenica è il giorno settimanale del culto, che naturalmente sfocia nel riposo. Là una legge per un popolo ancora immaturo; qui una necessità di vita per un popolo introdotto da Cristo nella libertà dei figli di Dio. Una necessità di vita che si chiama “domenica” o giorno del Signore; e unica festa cristiana, che condensava, nel costante ricordo settimanale del primo giorno, la celebrazione di tutto il mistero di Cristo, incentrato nella sua “ora” di morte-risurrezione.
Non v'era bisogno di un precetto: e precetto non c'era difatti; né di culto né di riposo. Sine dominico, avrebbero detto i martiri di Abitina - e l'espressione era comprensiva nel giorno domenicale, della riunione che in esso si svolgeva e dell'Eucaristia che in quella riunione si celebrava - sine dominico esse non possumus: senza la domenica così intesa non potevano vivere quei cristiani veramente convinti di quello che la loro professione comportava. L'impegno quindi di “santificare la festa”, prima ancora di essere un precetto, era e dovrebbe tornare ad essere per il cristiano una necessità vitale.
La domenica, con le altre feste che via via ne diluirono la densità del mistero, è l'incontro gioioso con Cristo nel suo ritorno sacramentale in mezzo ai suoi, ed è l'incontro gioioso di ogni cristiano con i fratelli per «non ridurre di un membro il corpo di Cristo», e «ascoltare con essi la parola di vita e nutrirsi dell'alimento divino che rimane in eterno». Sarebbe anche venuto a suo tempo il precetto, prima quello del culto e poi quello del riposo: questo appunto per facilitare quello.
Ma non sarebbe cristiano l'interpretare questo precetto come una semplice norma, legata a sua volta a una sanzione morale. Si tratta piuttosto di un richiamo provvidenziale. Il cristiano che deserta l'assemblea eucaristica rischia l'atrofia degli organi vitali del suo spinto: il precetto ha una funzione terapeutica di stimolo e di richiamo a santificare la festa o, meglio, a lasciarsi santificare, nel giorno dell'incontro con Cristo nella comunità dei fratelli. Nella legge d'amore instaurata dal Vangelo non è tanto il precetto che conta quanto la cosciente e libera adesione alle grandi realtà che questo amore ha portato nel mondo.
Secondo Mazzarello, teologo