Cinquant'anni di toghe rosa

Compie mezzo secolo la legge che ha ammesso le donne alla magistratura. Livia Pomodoro e Paola Di Nicola raccontano la loro esperienza in un ruolo rimasto per secoli roba da uomini

Paola Di Nicola: "Certi giorni vorrei tanto una barba e una cravatta".

09/02/2013
Paola Di Nicola (Alessia Giuliani Cpp)
Paola Di Nicola (Alessia Giuliani Cpp)

«In quel momento avrei desiderato avere un completo scuro, con cravatta intonata e sobria. Possibilmente una barba grigia e ben curata a incorniciare un viso serio e impenetrabile . Se fossi stata così, se mi fossi presentata così, certamente non mi sarei sentita fuori contesto e inadeguata rispetto al carcere, rispetto ai poliziotti, rispetto a Gennaro». L’imputato.

Paola Di  Nicola ha 46 anni, è giudice al Tribunale penale di Roma e ha scritto queste righe in un libro che si intitola La Giudice, una donna in Magistratura. Non nega, vent’anni dopo la nomina, che quella storia se l’era immaginata diversa. Che mai avrebbe creduto all’inizio che il pregiudizio che per secoli aveva escluso le donne dalla giurisdizione potesse pesare ancora – dopo tanta acqua sotto i ponti  ­­- sulla quotidianità del presente di tante donne che oggi indossano la toga nelle aule di giustizia italiane. Quando, dopo vent’anni di lavoro, ha messo insieme i fili di tante sensazioni vissute, delle mezze frasi smozzicate ingoiate facendo finta di niente, ha scritto tutto in un libro, che è una denuncia ma più di tutto una storia, nelle sue ruvidezze solare come chi l’ha scritta. Una storia anche ironica e autoironica, per quanto un po’ dolorosa, di cui nel giorno di questo anniversario abbiamo provato a chiedere conto.    

Dottoressa Di Nicola, quante altre volte prima e dopo l’interrogatorio di Gennaro ha desiderato una cravatta, un completo scuro, una barba? 
«Moltissime volte. Ogni volta che ho percepito in aula il pregiudizio, nascosto, sotterrato, di un imputato uomo di fronte alla prospettiva di essere giudicato da una donna, in relazione alla materia del processo. Mi è accaduto tutte le volte in cui capivo che, se io fossi apparsa con la giacca, la cravatta e la barba, gli avrei dato la certezza istituzionale di essere davanti a un giudice terzo e imparziale, che io con i miei capelli a mezza lunghezza, con la mia collana non gli davo». 

Per molto tempo le donne magistrato hanno dovuto fare riferimento a modelli maschili, è capitato anche a lei? 
«Sì. Sono partita anch’io rimuovendo la realtà concreta, il fatto di essere donna con il corpo di una donna, con il bagaglio culturale di una donna. Ho capito che quella differenza esisteva quando mi sono resa conto che il mio primo capo era più preoccupato del fatto che potessi assentarmi per una eventuale maternità, che delle mie capacità professionali. Ma al momento ho rimosso quell’aspetto. La presa di coscienza vera è arrivata, dopo, scrivendo. Lo scrivere, sollecitata dall’editore Ghena, mi costretto a un percorso, che mi ha permesso di scavare, di razionalizzare disagi, percezioni, episodi, che non avevo mai messi uno vicino all’altro». 

Non ha avuto paura di esporsi, in un momento in cui la presenza dei magistrati nel dibattito pubblico fa discutere? 
«Scrivere una sentenza significa esporsi, è un fatto connaturato alla nostra responsabilità. Mi sono posta il problema certo, ma la storia delle donne è stata silenziata, perché non è stata scritta dal loro punto di vista. Per questo mi sono sentita anche il dovere morale di porre questi problemi, perché non sono miei personali, ma possono ricadere sull’istituzione che rappresento». 

Tendiamo a dimenticarlo, ce ne accogiamo il giorno che una donna magistrato esposta, viene criticata e attaccata con argomenti che a un uomo nessuno si sognerebbe di rivolgere... 
«Attaccando una donna magistrato al di fuori del profilo professionale, non dicendo che è capace o incapace, ma aggredendola sul piano personale, si perpetua l’atteggiamento di chi in aula vede in me la donna e non il giudice. Questo libro è stato l’occasione di parlare con tantissime colleghe che mi hanno telefonato, mandato lettere, raccontato storie che non sono diverse dalla mia. Io non ho abbassato lo sguardo davanti a Gennaro, ma nessuno me l’ha insegnato. Ognuna di noi gestisce questo aspetto a proprio modo: c’è chi ironizza, c’è chi rimuove, chi ignora, c’è chi si mette una corazza, chi ricorre a propria volta all’arroganza. Ma dopo 47 anni di permanenza delle donne in magistratura, non possiamo permettere che sia affidata a ciascuna la prontezza della reazione giusta al momento giusto. Se una volta non la trovo il mio ruolo istituzionale dove va?». 


Il libro La giudice, una donna in magistratura. (Ghena)
Il libro La giudice, una donna in magistratura. (Ghena)

Le insegne del diritto sono maschili, il linguaggio anche, il suo libro però è anche pieno di simboli femminili, la collana, i post it colorati, il ricamo sulla pettina della toga. L’imparzialità passa anche per l’armonizzazione di questi apparenti contrasti? 
«Bella domanda, è il mio dubbio quotidiano. Direi che l’imparzialità è l’atteggiamento culturale istituzionale che deve presiedere a qualsiasi condotta del giudice, dal momento in cui assume la valutazione di una vicenda processuale sino alla sua conclusione. È il nostro dna, è la ragione stessa della garanzia istituzionale. L’imparzialità è l’essenza del nostro agire ma non può non passare attraverso il senso del nostro essere persone, con una testa e un corpo che vive nel mondo. Diversamente è finzione, astrazione».  

E’ questo che voleva dire quando ha scritto che l’imparzialità è una necessità ma la neutralità è un limite? 
«Sì, perché il neutro non esiste in natura. L’imparzialità si conquista giorno dopo giorno. Per diventare imparziali bisogna fare uno sforzo complesso: se io non razionalizzo fino a guardarla con occhio esterno la storia da cui provengo, non saprò mai quanto i limiti e la ricchezza di quella storia possono incidere sul mio giudizio». 

A proposito di passare attraverso un corpo, anche la maternità e i due figli hanno aggiunto qualcosa alla giudice? 
«Mi hanno resa più capace di entrare nel punto di vista delle persone che incontro, mi arricchiscono come persona, arricchiscono i miei modi di appartenere alla società: attraverso di loro capisco come ragiona un bambino, sento il disagio di un adolescente, percepisco le inquitudini di una madre». 

Nel libro scrive che è stata avvisata, soprattutto dai suoi modelli maschili, del pericolo di questa "comprensione". C’è il rischio nella sua posizione di giustificare troppe cose? 
«E’ un altro dei problemi che si impara a gestire. Entrare nella dimensione umana del giudice a mio avviso è essenziale, perché un atteggiamento burocratico, distaccato ed esclusivamente razionale rispetto a una vicenda processuale, non ti consente di andare a fondo delle cose, che è cosa molto diversa dal giustificarle. Perché in campo penale parliamo di delitti: un delitto è avvenuto, una vittima c’è. E quindi bisogna andare a fondo di tutto, della storia dell’imputato, ma anche della vittima. Perché la cosa peggiore che si possa fare è dare loro l’impressione di non essere ascoltati. Una volta capito si è meglio in grado di valutare e di giudicare con la dovuta attenzione. Se non si va a fondo si rischia di sbagliare» 

Come hanno reagito al libro i suoi colleghi maschi? 
«Hanno ammesso che non si erano mai accorti di nulla, che non ci avevano mai pensato. Però un una udienza recente, il presidente del collegio di cui facevo parte come giudice a latere insieme con un’altra donna, ha corretto un avvocato che esordiva: "Signor presidente, Signori giudici". "Signore giudici, grazie: le mie colleghe sono donne"».        

Elisa Chiari
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