26/01/2013
La proteste in piazza Tahrir, al Cairo (foto G. Musso).
Venerdì, la giornata inizia
nel torpore. Il traffico caotico del Cairo cede il passo a un ritmo lento, scandito dai richiami alla preghiera del muezzin.
Ma presto
iniziano ad arrivare le notizie da Piazza Tahrir. Gli Ultras dell’al-Ahli, una
delle due squadre del Cairo, si stanno scontrando già dalla notte con le forze
dell’ordine. È un piccolo assaggio di quello che succede oggi, sabato, dopo la sentenza sul massacro di Port Said.
Un anno fa, in questa città
sul Canale di Suez, 74 tifosi dell’al-Ahli – che, per inciso, aveva perso –
vennero massacrati alla fine della partita con la squadra locale con una
ferocia inspiegabile. Oggi, però,
i violenti si dileguano presto. Lasciano il posto a centinaia di migliaia di
famiglie, giovani, attivisti, che al termine della preghiera di mezzogiorno si
riversano nella piazza-simbolo della rivoluzione egiziana. I genitori portano
bambini piccoli sulle spalle, ognuno è avvolto in una bandiera, o indossa una
maglietta dei moltissimi movimenti sorti prima e dopo la rivoluzione, segno di
una società che ha ripreso a respirare dopo decenni di soffocamento. I cortei
si formano nei diversi quartieri della città, dalle aree popolari come Imbaba e
Shubra ai quartieri della classe media come Mohandiseen.
È quest’ultima la
manifestazione più numerosa, anche perché guidata dai due più importanti leader
dell’opposizione, Mohamed el-Baradei e Hamdin Sabbahi. Tutti confluiscono in
quello che è ancora, malgrado il logorio di una transizione travagliata, il
cuore pulsante del Paese.
Alle cinque,
la piazza è stracolma. “Perché siamo di nuovo in piazza due anni dopo?”, mi
dice Huda, “Perché Morsi se ne deve andare, c’è bisogno di una seconda
rivoluzione!”. Ha le idee chiare, come sembrano averle tutti coloro che
all’unisono urlano: “Irhal!”, “vattene!”, rivolti a un Presidente che non li
rappresenta e che, a loro dire, ha scippato la rivoluzione.
Anche le famiglie sono scese in piazza (foto G. Musso).
Ma gli slogan non si rivolgono solo contro Morsi. Il bersaglio forse più odiato è Mohamed Badie, attuale Guida Suprema dei Fratelli Musulmani. “Lo sanno tutti che Morsi non decide nulla”, mi ha detto la sera prima Rami el-Swissy, un attivista del Movimento 6 Aprile, “le direttive si prendono negli organi interni dei Fratelli Musulmani”, al vertice dei quali si trova la Guida Suprema. Un uomo porta un cartello che raffigura Morsi vestito da talebano. “Vattene! – si legge – L’Afghanistan è da quella parte!”. La rabbia è molta verso un Governo che, più che a risolvere i problemi della gente, sembra essersi preoccupato di occupare tutte le posizioni di potere e di regolare i conti con uno Stato che per oltre ottant’anni ha perseguitato proprio coloro che oggi si trovano al potere.
Il problema è l’Islam? “No, loro hanno strumentalizzato l’Islam e il sentimento religioso della gente”, commenta Salma, “la gente li vota perché è ignorante e fa quello che sente dire in moschea”. “Ma i Fratelli Musulmani non sono il vero Islam”, le fa eco Victor, un noto attivista, “Non conoscono neppure bene il Corano e i detti del Profeta. Se no saprebbero che Mohammad rispettava i cristiani e gli ebrei”.
Impossibile anche parlare di elezioni. “Le elezioni? Le hanno rubate, è chiaro!”, continua, “numeri alla mano le hanno rubate”. Ma perché la gente non va a votare? Al referendum sulla Costituzione ha votato solo un terzo di quelli che avevano diritto, obietto io. “La gente non va a votare perché non ha fiducia nelle elezioni, tutti sanno che ci saranno brogli e che comunque vinceranno i Fratelli Musulmani”.
Certo è che la democrazia è difficile da accettare, per gli uni e per gli altri. Se i liberali non possono riconoscere di essere minoranza e di avere molto meno radicamento popolare degli islamisti, questi ultimi concepiscono la democrazia come la tirannia della maggioranza, e non sono disposti a riconoscere una piena cittadinanza politica ai loro oppositori. Subdolamente, si insinua la tentazione di aggrapparsi ancora una volta all’esercito, che è stato un argine all’anarchia ma anche un forte ostacolo ad una piena democratizzazione. “Meno male che ci sono i militari, altrimenti questo Paese sarebbe già sprofondato nel caos!”, dice Ibrahim. Poi scopro che lui stesso è un soldato, me lo confessa dopo un po’ che parliamo. “Non potrei dirlo. Ho lasciato la mia carta d’identità a casa, perché noi soldati non dovremmo partecipare alle manifestazioni, se mi trovano rischio grosso”. Si parla molto di una collusione tra forze armate e Fratelli Musulmani, che mi sai dire? “Forse il ministro della Difesa potrà essere d’accordo con loro, ma posso assicurarti che tutto il resto del corpo ufficiali li odia”.
“Morsi deve andarsene, non c’è dubbio”, insiste Mohamed, “non so cosa ci sarà dopo, ma questo governo è una catastrofe”. Già, cosa ci sarà dopo. L’opposizione chiede il ritiro della Costituzione e la convocazione di elezioni presidenziali immediate. Ma siamo già alla vigilia di nuove elezioni parlamentari, e il grado di disaffezione dalla politica è tornato ai livelli pre-rivoluzione, quando nessuno andava a votare semplicemente perché non aveva alcun significato. Veramente l’Egitto ha bisogno di altre elezioni? “Io credo di no”, mi confida un tassista, “adesso la priorità è risollevare l’economia e ristabilire l’ordine”. Morsi può farlo? “No. Aveva promesso di risolvere tutti i problemi nei primi cento giorni, non ha mantenuto nulla”.
Punto e a capo. Nel frattempo la tensione è salita. Le notizie che arrivano da Alessandria, Suez, Port Said, parlano di morti e feriti. Alcuni iniziano a dare fuoco ai copertoni, drappelli di manifestanti bloccano tutti i ponti del centro e viene improvvisata una manifestazione di fronte all’imponente palazzo della televisione nazionale. La polizia decide che la festa è finita e comincia a disperdere la folla con una fitta pioggia di lacrimogeni. L’aria si fa irrespirabile, alcuni rispondono con delle molotov. Mentre mi allontano penso a quello che mi hanno ripetuto in molti, in questi giorni: si stava meglio sotto Mubarak. Ma continuo a credere che il “si stava meglio prima” sia come una maledizione beffarda, che ogni regime lancia nel congedarsi per nascondere le macerie che lascia dietro di sé.
Tutti sanno che tornare indietro non solo è un’illusione: semplicemente non si può riavvolgere il nastro della storia. E i milioni di uomini e donne che sono scesi in piazza in tutto il Paese oggi sembrano dire che vale ancora la pena di credere nel cambiamento. Ma la rivoluzione deve ancora mantenere molte delle sue promesse, e la notte sarà ancora lunga prima di vedere l’alba di un nuovo Egitto.
Giorgio Musso
(L’autore è ricercatore presso
il Dipartimento di Scienze Politiche
dell’Università di Genova)