Lampedusa, testimone del mondo

Il racconto di don Nastasi, parroco dell'isola: "Qui l'emergenza non finisce mai, ma la gente ha un grande cuore". In un libro, la storia degli sbarchi.

Le voci che non sentiamo

14/01/2013
Migranti raccolti in mare dalla Guardia costiera all'approdo a Lampedusa (Reuters).
Migranti raccolti in mare dalla Guardia costiera all'approdo a Lampedusa (Reuters).

Un braccio si sporge nell’instabilità di un’imbarcazione squassata dalle onde e afferra quello del soccorritore, che vede cadere dalla manica cicche di sigarette. Poi è tutto una corsa a salvare più vite possibile di quei 300 tunisini e libici arrivati a Lampedusa in un giorno di febbraio 2011: qualcuno sulle imbarcazioni, qualcuno tra le onde del mare, in un sussulto tra vita e morte. Più tardi il ragazzo spiegherà: “Il mare è sacro e guai a buttarvi qualcosa dentro. E’ natura, è espressione di Allah”.

E’ uno degli episodi raccontati nel volume Lampedusa. Cronache dall’isola che non c’è, edito da Ensemble e firmato da due giornalisti, Tommaso della Longa e Laura Bastianetto, rispettivamente il portavoce e una volontaria della Croce rossa italiana. Le storie, raccontate in prima persona, intrecciano la vita di profughi di diversi Paesi dell’Africa con la vita di agenti, medici, volontari, abitanti dell’isola del Sud Italia che sembra esistere solo nelle emergenze mediatiche. Raccontano l’umanità, tra nuda cronaca e lievità letteraria. Leggi, vicende politiche e geopolitiche sono sullo sfondo: non c’è analisi ma il grido di chi è scappato da soprusi e violenze e si ritrova su una brandina a chiedere perché “Lampedusa non è la porta d’Europa che tutti dicono” e perché “qualcuno viene lasciato andare e qualcuno viene rimandato indietro”.

Leggendo prende corpo un pensiero: è doveroso velocizzare le procedure per la richiesta d’asilo. Manca la voce dei tantissimi che il mare ha trattenuto: “La cosa più triste", dice un giovane medico, "è che nessuno conosce i loro nomi”.  Un volontario racconta lo stupore di vedersi offrire la merendina appena distribuita da un uomo soccorso poche ore prima e  descrive “lampedusani che regalano tende da campeggio, con tanto di sacco a pelo”. Un fotografo parla di “visione distorta delle cose” e di “impermeabilità ai sentimenti”. C’è la vita di una bambina, affidata dai genitori al cugino per sottrarla alla violenza cieca degli integralisti Al Shabaab in Somalia, soffocata tra le onde del mare, sommersa come tutte le speranze che solo il cuore di una madre e di un padre sanno avere. L’hanno accompagnata con il pensiero tra i passaggi via terra e sulla “carretta del mare”, che poco lontano dalla riva si è ribaltata. A raccontare, in questo caso, è un ragazzo del Darfur che l’ha vista morire.

C’è il racconto di una donna incinta che parla alla sua bambina: “Ho scelto la fuga, bambina mia, perché la Somalia non è mai stato un Paese per donne al di là della guerra civile”. La donna è confortata dal pensiero che la sua bimba nella pancia non vede il degrado di persone che, nelle lunghe ore del viaggio, fanno bisogni sullo stesso angoletto di legno. Non può capire i sussulti improvvisi: non appena si sente in lontananza il rumore di elicotteri chi ha il timone in mano lo abbandona perché “le forze dell’ordine italiane considerano scafisti quelli che guidano. Non vede “uomini presi a bastonate nella stiva appena tirano fuori la testa per respirare”.

Un volontario non dimentica il pianto dei “bambini lanciati dal barcone dai finanzieri che li staccavano dalle braccia del padre o della madre” per salvarli. Un medico grida: “Quando ho visto cinquemila tunisini buttati per terra all’addiaccio ho pensato di essere altrove: non poteva essere la mia Italia”. Un altro descrive “centinaia di persone in cerca di un riparo dal freddo: sembrano sacchi della spazzatura”. Un poliziotto racconta la dignità e il rispetto di ragazzi che vengono da una rivoluzione, giovani, forti, tanti. Potrebbero schiacciarci come fanno i piccoli piedi di un bambino dispettoso con un formicaio. Eppure sono pazienti.”           

Il mare è il Mediterraneo accogliente delle gite e delle crociere turistiche, ma anche il albahr elabiad elmutawasser, mare “bianco e medio” visto dall’Africa. E dopo il mare c’è l’incognita: un uomo, interpellato di soppiatto nel centro di accoglienza dove la stampa non può entrare, dice: “Provo un terrore che non ho mai provato durante il viaggio in mare”.  C’è chi riesce solo a esprimersi con “una stretta di mano e il thanks detto con voce flebile”.  

Fausta Speranza

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