02/05/2011
I giornali americani festeggiano la fine del terrorista Osama Bin Laden.
Appena arrivati, ci avevano detto di stare attenti; un invito generico, di routine, avevano precisato sorridendo. Poi, qualche ora dopo, ci hanno precisato che no, c’erano allarmi precisi: le forze di sicurezza pachistane sconsigliavano vivamente di andare nei campi profughi, a Nord di Islamabad, verso Peshawar, dove avremmo dovuto recarci. Tempo un giorno, e tutti i ragionamenti si sono tramutati in un caloroso suggerimento, insistentemente ripetuto, insomma un ordine camuffato dalle buone maniere: dovevamo andar via di corsa.
Era il novembre 2010. Famiglia Cristiana, Avvenire, le agenzie di stampa Sir e Asca avevano mandato inviati per raccontare come la Caritas italiana stava operando per la ripresa di vaste aree del Pakistan, dopo aver distribuito tonnellate di aiuti alle vittime della terribile alluvione che la scorsa estate causò vittime e danni enormi. Ma eravamo là nei giorni “sbagliati”. La sera di giovedì 11 novembre, infatti, proprio il giorno del nostro arrivo, i talebani avevano attaccato, a Karachi, il Comando della polizia criminale provocando almeno 30 morti e 165 feriti. L’intero Pakistan stava vivendo con il fiato sospeso.
La Caritas pachistana, efficientissima, aveva preparato un intenso (e interessante) programma di visite. Le prime ad essere cancellate furono quelle a Nord. In un angosciante susseguirsi di telefonate e di email, i responsabili venivano informati in tempo reale dal particolare ufficio delle Nazioni Unite che ha il compito di definire il grado di sicurezza redigendo rapporti costantemente aggiornati sulla base di notizie d’intelligence: le forze di sicurezza pachistane avevano sequestrato esplosivo e arrestato sospetti telebani proprio nelle aree dove avremmo dovuto recarci l’indomani.
«Se non riusciamo ad andare a Nord, verso Peshawar e le aree tribali, andiamo a Sud», dicemmo. A sera inoltrata anche quelle visite furono depennate: «La polizia pachistana sconsiglia vivamente che giornalisti europei dichiaratamente cristiani viaggino in giro per il Paese; è stata segnalata una crescente attività di gruppi criminali».
La tensione successiva all’attentato di Karachi e alle minacce dei talebani, che avevano promesso in capo a poche ore di colpire anche nel cuore di Islamabad, era sotto gli occhi di tutti, e non solo nei lanci di agenzia che leggevamo sui nostri computer portatili. Quello che noi in quel momento non sapevamo era che la Cia aveva da poco individuato il rifugio di Osama Bin Laden e che era cominciata la partita decisiva contro il terrorista ricercato numero 1. Il novembre 2010, insomma, è stato un mese fondamentale sia per il terrorismo attivo in quell’area, sia per la lotta finalizzata a bloccarlo.
Decidemmo di rimanere ancora un giorno e mezzo, in attesa dello sviluppo degli eventi, salvo fermarsi di più, se fosse stato possibile. Venerdì 12 novembre andammo nel cuore del cattolicesimo pachistano. L’incrocio che segna l’ingresso della zona dove, un edificio appresso all’altro, si trovano l’abitazione del vescovo di Islamabad e Rawalpindi (monsignor Anthony Rufin, da oltre un anno segretario della Conferenza episcopale pakistana), la cattedrale, la libreria gestita dalla società san Paolo nonché una frequentata scuola cattolica, era presidiato da un blindato dell’esercito e da un paio di soldati armati di mitra. Siamo entrati attraverso un pesante cancello solo dopo accurati controlli. Nel pomeriggio, a un centinaio di chilometri di distanza dal quartiere cattolico di Rawalpindi, nella capitale, Islamabad, abbiamo potuto intervistare con calma Shabaz Bhatti, cattolico dichiarato, dal 2008 Ministro per le minoranze: i terroristi avevano promesso di colpire ancora il cuore politico del Paese, indicando come prossimo obiettivo la casa del Presidente. «Nessuno può prevedere né escludere nulla», ci aveva detto il ministro. «La tensione è sicuramente aumentata. I talebani sono nemici dell’umanità della pace, della democrazia. Compiono azioni diaboliche». Frasi forti. Troppo forti per il Pakistan. Il 2 marzo 2011, Shabaz Bhatti è stato ucciso da fondamentalisti.
Tornati in albergo, ecco un’ultima, definitiva riunione. La Caritas internazionale e la Caritas pachistana, che in quei giorni avevano promosso un importante incontro per fare il punto sugli aiuti agli alluvionati e sulla ricostruzione, sentiti ancora una volta gli organi di polizia e i propri operatori sul terreno, avevano deciso di annullare tutte le missioni in programma. Valeva, ad esempio, per la delegazione della Caritas francese (Secoure Catholique) come per quella della Caritas tedesca. E valeva per quella della Caritas italiana.
Dalla lettura integrale dei rapporti di polizia inviati alla Caritas, fatta con calma nei giorni successivi, era emerso - preoccupante – l’intrecciarsi tra loro di tre elementi diversi: il fondamentalismo (che pareva aver ricompattato le fila al suo interno), la criminalità comune che puntava e punta agli occidentali e la rabbia crescente di chi ha perso tutto a causa dell’alluvione. «Sappiamo che nel vicino Irak Al Qaida ha definito obiettivo legittimo tutto ciò che è cristiano», ci aveva detto monsignor Anthony Rufin, vescovo di Islamabad e Rawalpindi. Non pensiamo che qui si arrivi a tanto. Il dialogo è possibile, anzi a livello di base è molto praticato. Finora le chiese non sono state prese di mira a differenza delle moschee, delle caserme e dei commissariati. Ci affidiamo a Dio. Non fuggiamo».
Le difficoltà, comunque, non hanno fermato l’attività umanitaria delle varie Caritas che hanno aiutato e continuano ad aiutare complessivamente 360 mila persone alluvionate dopo aver reagito alla prima emergenza con interventi pari a 10 milioni di euro.
Alberto Chiara