30/12/2011
Alcuni abitanti della città petrolifera di Zhanaozen, in Kazakistan, sconvolta dalle proteste per l'aumento dei salari.
Tutto è cominciato sette mesi fa nel Kazakistan dell'Ovest, a Zhanaozen, città di 90mila abitanti dove le temperature variano dai 40 gradi dell'estate ai - 40 dell'inverno. Qui hanno base molte delle società petrolifere presenti in questo immenso paese dell'Asia centrale, ricchissimo di materie prime e governato fin dal crollo dell'Unione Sovietica dal “presidente a vita” Nursultan Nazarbaev. A maggio, nel quasi totale silenzio dei media, migliaia di lavoratori hanno iniziato a protestare per salari più giusti.
Ufficialmente a Zhanaozen un operaio locale del settore petrolifero guadagna circa 1.000 dollari, una cifra ragguardevole per gli standard kazaki. E infatti nel resto del paese finora sono stati in pochi a sostenere la causa dei manifestanti. I lavoratori di Zhanaozen dicono però che le cose stanno diversamente: sostengono che le aziende pagano meno del dovuto. Non abituate a questo genere di contestazioni, alcune compagnie petrolifere hanno risposto alla protesta dei lavoratori kazaki licenziandoli. Migliaia di persone sono rimaste senza lavoro. Risultato? La piazza non si è svuotata. Anzi, si è riempita di rabbia: migliaia di persone senza più molto da perdere hanno deciso di proseguire ad oltranza la protesta. Nei giorni di massima partecipazione, secondo gli organizzatori, i manifestanti erano circa 16mila.
La folla dei manifestanti si riunisce nella piazza della città di Aktau.
In questi mesi sono successe cose preoccupanti a Zhanaozen. Natalia
Sokolova, avvocato dei lavoratori, è stata condannata a 6 anni di
prigione per “istigazione al conflitto sociale”. Uno dei leader della
protesta, Zhalsylyk Turbaev, è stato trovato morto per motivi che
restano ancora oscuri. E così è accaduto anche alla figlia di uno dei
sindacalisti. Poi è arrivato il 16 dicembre, anniversario
dell'indipendenza kazaka dall'Unione Sovietica. Da questo momento la
storia diventa difficile da ricostruire. Di certo la festa per
l'indipendenza, con tanto di palco musicale e parate nazionalistiche, si
è trasformata nella protesta anti-governativa più eclatante degli
ultimi 20 anni.
Le autorità kazake dicono che la polizia ha ucciso 16 persone, ne ha
ferite 110 e arrestate una quarantina. Motivo: la città è stata messa a
ferro e fuoco da un gruppo di “hooligans”, “gente pagata per creare
disordini che ora verrà stanata e adeguatamente punita”, hanno spiegato
Nazarbaev e il suo staff. Molti abitanti di Zhanaozen e alcuni
oppositori sostengono però un'altra versione. I morti sono molti di più,
forse addirittura un centinaio, gli ospedali sono pieni di feriti e gli
arrestati, circa 400, sono sottoposti a tortura in carcere. Di certo ci
sono solo alcuni video postati su internet in cui si vede la polizia
sparare sui civili disarmati (http://www.youtube.com/watch?v=jiYn68tU5gg).
Il “presidente a vita” del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, durante un discorso all'Onu.
Impossibile verificare le notizie: dal 16 dicembre il regime kazako ha
imposto lo stato di emergenza a Zhanaozen impedendo di fatto l'accesso
ai giornalisti indipendenti. Un abitante di Zhanaozen che abbiamo
contattato ci ha raccontato sotto anonimato che tuttora, a oltre 10
giorni dagli scontri, gli Omon, gli agenti delle forze speciali kazake,
presidiano le strade controllando i documenti a chi si azzarda ad uscire
di casa. Non si può entrare o uscire dalla città. Molte persone sono
sparite. Dopo un iniziale blackout telefonico, ora le linee sono state
riaperte ma restano inaccessibili i siti Internet dell'opposizione oltre
a Twitter e Youtube.
Insomma, il “presidente a vita” Nazarbaev sta cercando di creare un
cordone sanitario intorno a Zhanaozen per evitare che la ribellione
possa contagiare il resto del paese. Per ora le proteste sono arrivate
ad Aktau, il capoluogo della regione. I manifestanti sono alcune
centinaia e chiedono al governo di ritirare i militari da Zhanaozen. Ma
da Akatu alla capitale Astana ci sono 2.600 chilometri di steppa da
percorrere. Privata di internet, la rivolta kazaka rischia di finire
sotto silenzio.
Stefano Vergine