06/04/2012
Sarajevo: piazza Skenderia nel 1993 (sopra), ai tempi dell'assedio, e oggi (foto del servizio: Reuters).
Sarajevo, vent’anni dopo. Un paio di decenni, per dimenticare le atrocità, ma senza trovare la strada giusta. Arrivando da Mostar, cupa e fascinosa, le prime luci che scorgi dietro gli umidi finestrini di uno stipato pullman sono quelle di Novo Sarajevo, ai confini con la zona industriale, disadorna periferia Ovest della città, a un tiro di schioppo dal centro.
La lunga arteria su cui sfrecciano centinaia di automobili è un luogo celebre, sinistramente celebre. Si chiama Zmaja od Bosne (Dragone di Bosnia), lungo e largo serpentone di catrame, delimitato da alberi in fiore. Un tempo era conosciuto come il Viale dei Cecchini, un luogo di morte, di cui era sconsigliato l’attraversamento, se non a rischio di cadere sotto i vili colpi dei serbi appostati negli angoli più oscuri e nascosti, tragica sorte toccata a 225 persone nell’arco degli interminabili mesi del più lungo assedio che la storia moderna ricordi. Vent’anni dopo, la normalità è il ritorno ad antiche abitudini: non solo il traffico di chi attraversa Sarajevo in senso longitudinale, ma pure la silenziosa tranquillità del viale alberato che costeggia il fiume Miljacka, a Sud della Zmaja od Bosne, popolato da anziani che ne occupano le panchine, da ragazzi che vi sfrecciano sugli skateboard, da giovani e meno giovani che nelle loro tute da jogging sfuggono alla frenesia del centro.
Sintomatico che proprio qui le locali guide chiudano i loro tour - dopo aver condotto i turisti al tunnel di Dobrinja, conosciuto anche come il Tunnel della Speranza, quello che conduceva all’aeroporto, quindi alla fuga dalla guerra - rimandando a memoria storie di drammi vissuti. E’ il presente che si mescola al passato, l’ordinaria serenità del momento che incontra l’amara realtà di oltre un decennio fa. Perché tutto convive, a Sarajevo.
La preghiera pasquale di una cattolica di Sarajevo.
Convivenza è la parola magica, che dovrebbe aiutare a catalogare negli errori della storia accadimenti di straordinaria gravità. Convivenza è la parola magica, ma pressoché sconosciuta. Il recente passato, buio e triste, è nelle sagome ferite di edifici che paiono usciti da una prova di resistenza: i colpi d’artiglieria, i cui effetti sono tuttora ben visibili, ne hanno devastato le facciate, ancora segnate, bucherellate, incise. Il recente passato è un susseguirsi di croci, che chiazzano di bianco le colline circostanti. A ogni spazio utile, un cimitero, eterno rifugio per chi ha pagato con la vita uno dei più aberranti orrori dell’umanità (10.618 morti, di cui 1602 bambini).
Alzi lo sguardo, i tuoi occhi ne incontrano a decine, incastonati lungo i versanti che declinano verso la città, utili testimoni e preziosi moniti. Il presente non ha la memoria corta, non vuol rimuovere, ma lasciarsi il male alle spalle, almeno in superficie. Perché il presente è una città che attira turisti e ricomincia a vivere, che si nutre di cultura e non nasconde la voglia di divertimento. Convivenza è la parola magica, tra etnìe, fedi, religioni, un traguardo difficile da raggiungere, un cammino irto di ostacoli, che chissà quando e se sarà portato a termine, nonostante l’impegno, la forza e l’impulso delle giovani generazioni. I muri restano, anche se spesso invisibili: i matrimoni interetnici sono ancor più rari che in passato, i bambini delle differenti etnìe crescono sempre più divisi, vittime di un’odiosa incomunicabilità.
Sarajevo è a maggioranza musulmana, sempre più marcata. Un tempo cosmopolita, ora è quasi un monolite bosniaco-musulmano. La comunità cattolica, numericamente depauperata nel tempo, vi ha pieno diritto di cittadinanza, ben più che a Mostar, dove la tensione è palpabile e le divisioni palesi, ma resta minoranza netta, isolata da rapporti di vicinato mai veramente normalizzati. Nell’architettura, la vera convivenza. La Katedrala Srce Isusovo (la Cattedrale cattolica), maestosa, apre il suo portale su una piazza che spacca in due Ferhadija, isola pedonale che taglia il centro, e guarda in faccia Strosmajerova, il posto dei giovani per eccellenza, elegante e vivace, un mix di luci, colori, musica.
Piegando verso Est, ci si inoltra tra nella Bascarsija, la Città Vecchia, intricato dedalo di vicoli dal fascino accattivante, in cui farsi rapire da botteghe, odori, sapori. E lì, nel bel mezzo, che si ammirano le morbide linee della Gazi Husrev-begova, la più grande e famosa delle decine di moschee di Sarajevo: orari di apertura elastici, talvolta non rispettati, rigidi codici di comportamento e abbigliamento, ma accesso riservato a tutti, nessuno escluso.
La protesta davanti al Parlamento bosniaco di un ex militare. I soldati bosniaci, serbi e croati che un tempo si combattevano, oggi manifestano insieme contro il ritardo nel pagamento delle pensioni.
Tornando sui propri passi, riammirando per un attimo le architetture
gotiche della cattedrale, ci si imbatte nella sagoma color giallo ocra
della Stara Pravoslavna Crkva, la Cattedrale serbo-ortodossa, altra
tappa di un tour tanto breve quanto sorprendente, un autentico viaggio
tra le religioni, che riconcilia con un mondo in cui spesso la fede
viene usata a pretesto per il male. Perché poche centinaia di metri
verso sud, superato attraverso un agile ponte il quieto e limaccioso
Miljacka, lungo la riva meridionale del fiume, c’è la Jevrejski Hram, la
più grande sinagoga della città. Uno spicchio della città, un paio di
chilometri quadrati, metro più, metro meno. E c’è racchiuso il senso
della fede, di tante fedi. Già un piccolo miracolo, di questi tempi. In
attesa di altri, che cancellino il passato per sempre e annullino
antiche divisioni. Sempre che quel giorno arrivi. Vent’anni sono
passati, quasi invano.
Ivo Romano