Sud Sudan, la lotta per la secessione

Continua il reportage dei nostri inviati in Sud Sudan: un'Africa poco "contaminata" che attende con ansia il referendum del 9 gennaio. E dove il sistema sanitario è inesistente. Video.

Il dramma di una popolazione: morire per dare la vita

25/11/2010

Il Sudan è il Paese col più elevato tasso al mondo di vittime da parto. La percentuale, spaventosamente alta, è di 2.243 per centomila. In cifre più semplici significa che ogni 100 parti 2 donne muoiono. «Possiamo essere certi che oggi, qui nella contea di Yrol, una donna morirà nel dare alla luce il suo bambino», dice Enzo Pisani, direttore dell’ospedale di Yrol di Medici con l’Africa-Cuamm. «Il calcolo è presto fatto: la popolazione della contea è di 350 mila persone. Sulla base del numero di parti totali, 350 donne perderanno la vita. Una al giorno.

Una cifra inaccettabile, non solo dal punto di vista medico-sanitario, ma prima ancora morale», insiste Pisani. Se allarghiamo la stima a tutto il Sud Sudan otteniamo il drammatico numero di 8.000 morti da parto ogni anno. Per capire di quale massacro silenzioso stiamo parlando, basta confrontare con i dati italiani: nel nostro Paese la percentuale è di 10 per centomila, cioè 60 casi l’anno. In Nord Europa è ancora più bassa: si aggira intorno al 4-5 per centomila.

Tra le tante emergenze di questo Paese che sta per nascere (il 9 gennaio si voterà il referendum per la secessione dal Nord), quella di nascere e far nascere è in testa alle priorità: sono “imprese” che spesso costano la vita, alla madre o al bambino. La mortalità infantile sotto i 5 anni è pure elevatissima: si aggira intorno al 240-250 per mille. Perciò abbiamo deciso di attraversare un fazzoletto di questo grande Paese accompagnando il lavoro di due organizzazioni non governative italiane che si occupano di interventi medico-sanitari: Medici con l’Africa-Cuamm di Padova (che, oltre all’ospedale di Yrol, ne gestisce un altro nella cittadina di Lui) e il Comitato di Collaborazione Medica (Ccm) che opera in diverse realtà di piccoli ospedali o centri di salute rurali nelle zone di Bunagok, Billing, Adior, Turalei.

«Questo Paese è all’anno zero, quanto a sanità», aggiunge Pino Meo, “storico” medico del Ccm che da 30 anni compie missioni in Sudan meridionale per operare. Perciò abbiamo deciso di lavorare nelle realtà più remote e periferiche, dove non arriva nessuno
. In una situazione come questa è inutile pensare a grandi strutture centralizzate, perché la gente non riesce ad arrivarci. Dobbiamo cercare di giungere, con mezzi poveri e semplici, nel maggior numero di luoghi possibili, in modo capillare». I medici e il personale del Cuamm come quello del Ccm si trovano ad operare in condizioni estreme: strutture che affiancano a qualche edificio più recente ancora quelle costruite in modo tradizionale, con legno e fango; sale operatorie che non hanno nulla più dell’indispensabile e che devono affidarsi al generatore per avere l’energia elettrica garantita.

Qui i chirurghi come Pisani e Meo operano di tutto: dai cesarei alle appendiciti, dalle ernie (frequenti fra i dinka) alle fratture scomposte. Fino ai morsi delle iene, che spesso attaccano donne e bambini quando li trovano soli, fuori e anche dentro i villaggi. La situazione generale della sanità nel Paese presenta dati sconfortanti: solo il 16% delle donne gravide beneficiano di visite prenatali e appena il 17% dei parti è assistito da personale sanitario qualificato. Meno del 10% dei bambini fra 0 e 5 anni è vaccinato, e la malnutrizione infantile è endemica: colpisce quasi un terzo dei più piccoli. Anche la percentuale di malati di tubercolosi è fra le più alte del mondo. È stimata in 325 per 100,000.

Luciano Scalettari
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