Usa, anche i ricchi perdono il posto...

... e non sempre lo ritrovano. In America è dura pure per i manager. È tanto facile perdere il lavoro quanto difficile trovarne uno nuovo. Licenziamenti repentini ed estrema precarietà.

Cìè chi rischia di stare al palo per mesi, per anni, o per sempre

10/04/2012
I principali manager "executive" del gruppo Google, durante una presentazione del browser Internet "Chrome" a San Francisco, in California (Reuters).
I principali manager "executive" del gruppo Google, durante una presentazione del browser Internet "Chrome" a San Francisco, in California (Reuters).

Due anni or sono, la Northeastern University di Boston pubblicò uno studio che calcolava il tasso di disoccupazione nazionale in base al reddito, parametro che le statistiche ufficiali, di solito attente a razza, età, istruzione ecc… non prendono quasi mai in considerazione. Dal rapporto emergeva quanto la crisi, che in quel periodo raggiunse il picco massimo, colpisse più duro tra i ceti meno abbienti, riducendo i suoi effetti in modo esponenziale nelle fasce più benestanti. Addirittura emerse che tra i più poveri (meno di 12.000 dollari lordi l’anno) i potenziali lavoratori “a spasso” erano più del 30%, mentre tra i più ricchi (135.000 dollari o oltre) erano appena il 3%. Per arrivare - decimale più decimale meno - a un 8% circa (dato comunque altissimo per gli USA) nella fascia media e più "affollata" dei redditi dai 40 ai 60.000 dollari.

Uscito nell’inverno 2010, quando la disoccupazione, superò – per la prima volta dal 1983 e la seconda dal 1940 – la soglia psicologica della "doppia cifra” (il 10%), lo studio fece molto scalpore, specie nel dibattito nazionale sulla forbice tra “ricchi” e “poveri”. Ma non tutti gli analisti concordarono. Quelli, attenti, dello storico magazine conservatore National Review, ad esempio, fecero notare quanto il reddito fosse un parametro fuorviante, poiché in America perdere uno stipendio da oltre 100.000 dollari l’anno fa scendere immediatamente o quasi di una fascia o due. Fu anche pubblicata una statistica che considerava gli aumenti, nel tempo, del tasso di disoccupazione dimostrando che tra i meno abbienti era cresciuta addirittura di meno: nelle due fasce di reddito più basse risultò del 67 e del 78% mentre in tutte le altre, superava il 100%.

Il fatto è che ancora oggi, nonostante il dato nazionale (8,5%) sia leggermente migliorato, in America è dura per tutti. Da quando nel 2008, come si dice in gergo è “scoppiata la bolla immobiliare” seguita a ruota da quella finanziaria, negli Stati Uniti è tanto facile perdere il lavoro, quanto è difficile trovarne uno nuovo. Attualmente, secondo le cifre del Department of Labor (il Ministero del Lavoro USA) il 6% degli americani (circa 14 milioni di individui) guadagna, o almeno dichiara, più di 100.000 dollari l’anno - o come dicono qui “six figures”, sei cifre - altra importante soglia psicologica. In testa alla classifica dei redditi figurano i CEO (ammmnistratori delegati) con una media di 240.000 dollari l’anno; poi medici e chirurghi, 140.000; dentisti, 133.000; avvocati 126.000; e piloti di linea, 120.000 (i quali però, considerando i tempi di lavoro effettivo guadagnerebbero, l’ora, più di tutti).

Intorno ai 100.000, figurano gli "executive" (noi li chiamiamo manager), ovvero i responsabili dei dipartimenti marketing, vendite, finanza, tecnologia e ricerca di aziende – grandi medie o piccole che siano - soggetti, a licenziamenti repentini e senza preavviso anche in tempi di “vacche grasse”. Per loro, e sono tanti, la crisi ha reso più efferata la competizione e più estrema la precarietà. In un momento del genere, posti di lavoro da 10.000 dollari al mese, sono più rari che mai. Chi li cerca, rischia di stare al palo per mesi, per anni, o per sempre, abbandonando una carriera su cui ha investito tutto – da costosissime lauree a, spesso, elementi importanti di vita privata.

E, quasi sempre, senza suscitare, né la compassione, né tantomeno la simpatia, di nessuno. Ma, almeno in America, c’è chi aiuta (pagando, s’intende) questi manager dispoccupati sia a trovare lavoro sia – e spesso è questa la sfida maggiore - a non perdere sé stessi.

Stefano Salimbeni
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