11/11/2010
Richard Easterlin, per chi non lo sapesse,
è un docente di economia dell’Università
della California meridionale
e membro dell’Accademia nazionale
delle Scienze, che ha legato il suo
nome a un paradosso, quello della Felicità,
definito nel 1974 ma valido ancora a
decenni di distanza come ricorda un altro
economista, Stefano Zamagni, uno
dei più ascoltati nel panorama italiano
non solo per i titoli (è professore
ordinario di Economia politica all’Università
di Bologna e presidente dell’Agenzia
per le Onlus) e l’ampia bibliografia,
ma anche per il suo parlare sempre
schietto e franco.
«Easterlin evidenziò che la felicità delle
persone non dipende dalle variazioni di reddito.
O meglio: ha osservato che con l’aumento
del reddito, e quindi del benessere economico,
la felicità cresce fino a un certo punto,
poi comincia a diminuire, mentre si alzano
gli indici di infelicità».
Quindi meglio essere poveri e felici?
«La verità è che, sopra un certo livello, possedere
più beni non aggiunge nulla, anzi.
Perché la felicità èmolto più legata ai beni relazionali
che non alle merci. Mentre oggi ci
sono sempre più persone impegnate a produrre
reddito: se dedichi più tempo alla produzione
dei beni diventi più ricco, ma questo
non ti consente di consumare i beni relazionali
che sono quelli che danno felicità, perché,
come diceva Aristotele, per essere felici
bisogna essere almeno in due. Da soli si può
essere massimizzatori del profitto, ma non si
può essere felici».
Ma i beni relazionali richiedono tempo che
un papà e una mamma stentano a trovare se
sono impegnati a mantenere la famiglia...
«Mentre la produzione di merci è riuscita
ad abbattere i tempi grazie alle tecnologie infotelematiche,
i rapporti tra le persone ne
hanno ancora bisogno. E costano pure fatica.
Me lo ricordo bene io che sono nonno. Quando
i figli erano piccoli aspettavi con desiderio
il lunedì, perché loro ti riempivano la testa
di domande. Ma siamo sicuri che ne possiamo
fare a meno?».
L’economista invita a lavorare meno e stare
di più con i figli?
«Sono i giovani a chiederci “che senso
ha?”, “In quale direzione stiamo andando?”
I bambini sono divoratori di bene relazionale.
È assurdo pensare: “Faccio il quarto lavoro
e poi gli compro un gioco in più”. Il bambino
ha bisogno di rapportarsi per scoprire la
propria identità».
Le mamme e i papà americani preferiscono
sempre più affidare la gestione dei figli
all’azienda, che ti procura la mensa, l’asilo,
le vacanze, gli studi...
«Si parla infatti, sempre più anche in Italia,
di welfare aziendale. Ma siamo veramente
sicuri di voler affidare l’educazione dei figli
al “conservatorismo compassionevole”,
come lo chiamano negli Stati Uniti? Le famiglie
non hanno niente da dire? Devono limitarsi
a delegare?».
Non sarà che sono troppo occupate a lavorare
dentro e fuori casa e a prendersi cura,
da sole, di tutti?
«La famiglia è il luogo in cui avviene la massima
produzione di beni relazioni, come viene
ripetuto ovunque, ma in Italia c’è una
sproporzione enorme tra i discorsi e la realtà.
Intere biblioteche sono dedicate al suo ruolo
e alla sua importanza, ma l’attenzione delle
politiche è inversamente proporzionale».
A Milano si è svolta la Conferenza nazionale della famiglia.
Non si rischia che ci si
fermi ai buoni propositi senza tradurli in
azioni concrete?
«Dobbiamo ricordarci che gli italiani sono
da sempre ottimi diagnosti, ma meno bravi
terapeuti. Sono capaci di analizzare, giudicare,
denunciare cose sbagliate a scoprirne le
cause, ma non di tradurre i ragionamenti in
proposte operative. È un tratto della nostra
cultura talmente radicato che lo diceva già
Giacomo Leopardi. Siamo malati anche di
“benaltrismo”».
Che è?
«Ogni volta che fai una proposta qualcuno
ti dice: “Ci vuole ben altro!” Ma questo atteggiamento
è accompagnato anche da un altro
male che affligge la famiglia. Se ne occupano
psicologi, sociologi, giuristi – il che è prezioso
– ma mai gli economisti, che invece potrebbero
passare dalla diagnosi alla terapia e
alla medicina. E spiegare come sia profondamente
sbagliato che la famiglia continui a essere
considerata luogo di consumo e non di
produzione, come le imprese».
Alla medicina giusta non si arriverà mai?
«Un altro problema è che il tema della famiglia
è considerato eticamente e politicamente
sensibile. In Italia la famiglia ha sempre
costituito un ammortizzatore sociale che
è servito a finanziare lo Stato, una forma di
sussidiarietà al contrario, frutto tuttavia del
compromesso che il capofamiglia aveva un
lavoro e un reddito adeguati a mantenere
moglie e figli».
Le pare che oggi sia così?
«Appunto, ma, si badi bene, non è solo
una questione di denaro disponibile. Il problema
è anche di natura culturale, legato ai
rapporti di genere e a quell’idea secondo cui
la donna che sta in casa fa figli, proprio il
contrario di quanto è accaduto con un tasso
di fertilità ben più basso che in Paesi dove le
donne lavorano di più».
Perché ha sbagliato chi ha sostenuto questa
filosofia?
«È come se si cercasse di comperare con i
soldi la libertà, di rendere commerciabile ciò
che non lo è, come mettere al mondo un bambino. Oggi sappiamo per certo che il modo
migliore per alzare la fecondità è favorire
la libertà di decisione e la conciliazione dei
tempi di lavoro con quelli della famiglia».
Non trova che anche di questo si continui
a parlare e basta?
«L’esempio viene dall’estero,
come nel caso della Volvo: là si
può entrare al lavoro tra le 8 e le
10 e uscire con la stessa flessibilità.
Vuoi mettere una mamma e
un papà come possono organizzare
meglio i tempi dei figli? In
Inghilterra una donna può stare lontana dal
lavoro fino a 5 anni nella stagione in cui le è
più utile e recuperare più avanti. Ma anche
in Italia da tempo qualcosa si muove. Ci sono
esempi interessanti realizzati da imprenditori
e manager illuminati, ma occorrerebbe
estendere le buone pratiche a campi più
ampi, ai Comuni, alle Province. Questo è il
problema dei problemi, il nodo dei nodi. Se
non risolviamo questo, la dignità della famiglia
non potrà essere riconosciuta».
L’articolazione dei tempi della nostra società
è contro la famiglia?
«Fino a prova contraria i figli si possono
avere in un’età e non in altra, quindi è chiaro
che questo sistema è contro la donna. È
inutile fare retoriche di vario tipo se non si
prende atto che possiamo usare gli aumenti
di produttività, anziché per costruire più automobili,
e quindi far crescere il consumismo,
per consentire alle famiglie di scegliersi
il proprio piano di vita e quindi il futuro dei
nostri figli e della nostra società».
Renata Maderna