10/12/2010
Alberto Cairo nasce a Ceva, in provincia di Cuneo, nel 1952. E' un esperto fisioterapista, ma ha anche una laurea in Giurisprudenza. Nella capitale afghana dirige il Centro ortopedico del Comitato internazionale della Croce Rossa. Fotografia di Nino Leto/Famiglia Cristiana.
Kabul, dicembre 2010.
L'Afghanistan non sa cosa vuole diventare. Un paese tradizionalista? Moderno? Teocratico? Democratico? Autoritario? Grande incertezza. Gli afghani affermano di volere benessere, giustizia, elezioni e rappresentanti onesti, scuola e ospedali per tutti, ma pochi parlano di democrazia. E' un concetto troppo forestiero, lontano. Non sono sicuri che possa funzionare dopo anni di caos. «Il Paese ha bisogno di un uomo forte», dicono in molti. «Meglio un diktatòr, con carota e bastone».
L'Occidente non li aiuta di certo a decidere. Arrivato in massa e con fanfare alla fine del 2001 per cacciare i talebani, non ha mantenuto le promesse: la guerra infatti continua, la sicurezza peggiora, l'economia non decolla. Con una novità. Stanchi, con problemi finanziari e perdite di vite umane, i governi occidentali se ne vorrebbero andare. Lo dicono chiaramente, rimpiangono di esserci venuti, studiano exit strategies, vie di uscita, senza paura di contraddirsi. Fino a ieri giuravano che Kabul non era pronta a gestirsi da sé, troppe irregolarità, corruzione, oggi sono improvvisamente di opposto parere: malgrado le condizioni siano immutate, elencando discutibili successi, dicono che è tempo di trasferire fondi, responsabilità e difesa al governo, di ritirare addirittura i contingenti militari. Si ricredernno?
Agli imprevisti, agli alti e bassi gli afghani sono abituati. «Niente dura qui», si consolano amari. Così da sempre. Ricordo gli ultimi giorni del comunisti nei primi anni Novanta. «Hai visto? Lo sapevamo, se ne vanno», dicevano sollevati. Poi, in piena guerra civile, con le bombe mujahiddin che cadevano ovunque, consolavano me, vedendomi più che smarrito, «passerà anche questo, vedrai». E aspettavano pregando. Fu la volta del regime talebano con leggi assurde, niente scuola e lavoro per le donne, segregazione, musica e fotografie proibite, isolamento dal mondo. "«Questione di tempo»", ripetevano sicuri. E oggi continuano ad aspettare, cosa non sanno bene, in una Kabul che si allarga a dismisura con case ovunque, di ogni foggia, sempre senza fogne, spesso senza acqua.
Dalle finestre di casa mia non vedo più le montagne, chiuso da abitazioni improvvisamente innalzatesi di dieci metri. Un vecchio piano regolatore esiste. Ma esiste soprattuto il modo di raggirarlo. Pochi giorni fa un buon conoscente mi ha annunciato con sollievo di avere cominciato i lavori in casa. Aspettava da più di un anno. «Come hai fatto?». «Trovato le persone giuste», ha risposto strizzando l'occhio. Qualche bustarella e avrà due piani in più. I vicini già l'hanno fatto. Attendere non gli conveniva coi prezzi in costante ascesa.
La corruzione è diventata un'economia parallela. Accettata di fatto. Cercando lavoro nel settore pubblico si pensa non tanto allo stipendio ma ai possibili sottobanco. Persino in esattoria uno deve dare la mancia perchè il cassiere accetti il pagamento. Abituati a lottare per sopravvivere, arrangiarsi appena si può è la regola. Chi sa quanto potrà durare? Gli afgani ne ridono per meglio sopportare.
Alberto Cairo, 1 - continua