14/12/2010
Alberto Cairo (Ceva, 1952) è un esperto fisioterapista, ma ha anche una laurea in Giurisprudenza. A Kabul dirige il Centro ortopedico del Comitato internazionale della Croce Rossa. Qui è con monsignor Giuseppe Moretti, guida della comunità cattolica afghana. Foto di Nino Leto.
Kabul, dicembre 2010
E adesso è arrivato l'inverno,
portando altri bisogni. Mi auguro che non sia rigido come quello del 2008, quando centinaia di
persone morirono. Tanti pastori, sorpresi in montagna da un freddo eccezionale,
persero mani e piedi, congelati. Molti anni fa, mi colpì la frase letta in un
libro. Descriveva un paese cupo, immerso nella neve: «un posto dove è
sempre inverno e mai Natale».
Natale, giorno di festa grande. Fin da bambino l'ho sempre aspettato con gioia, per
convinzione religiosa e per la luce che l'accompagna. Per il messaggio di pace e di
speranza che porta con sé. Nei vent'anni passati a Kabul, specie nei momenti di scoraggiamento di fronte alle disgrazie
che sembrano mai finire, mi sono chiesto tante volte se per caso fosse l'Afghanistan
quel Paese. Proprio niente luce, niente speranza? No. Se una grande luce che
risolva i guai del Paese non si intravede, tante piccole fiaccole brillano. Basta
guardare a come le famiglie sono unite, a come trattano i vecchi.
L'Afghanistan, infatti,
non è solo il paese dell’oppio, dei signori della guerra e della corruzione. È
anche il paese dove le case di riposo non esistono e gli anziani vivono con figli,
nuore e nipoti, accuditi e rispettati. Posti che ospitano derelitti, malati
mentali, poveri senza nessuno, naturalmente esistono, ma nessuno si sognerebbe
mai di metterci padre e madre. L'Islam e le tradizioni sanciscono il ruolo dei
genitori e di chi è avanti con l'età. E i doveri dei figli. Non si discutono. Avrei mille
storie da raccontare. Quella di Naim, uno dei nostri impiegati, per esempio. Da
anni non dorme un'intera notte. Ultimo dei figli, restato – com'è usanza - a
vivere coi genitori anche da sposato, per anni si è preso cura delle madri malate
(il padre aveva tre mogli), adesso accudisce il padre paralizzato. Gli cambia posizione
ogni ora per evitare i decubiti, mette e toglie padelle e pappagalli, lo lava.
Sua moglie aiuta. Di giorno tocca ai nipoti, a turno. Al lavoro, Naim ogni
tanto si addormenta.
Certo, uno può
dire che in Afghanistan la struttura familiare è diversa, i figli sono
numerosi, ce n’è sempre uno disponibile; esigenze e aspettative di vita sono
più modeste. Vero, ma non funzionerebbe senza vero affetto, profondo rispetto. Nelle campagne poi la solidarietà è
commovente. Nessuno muore di fame, anche
chi non ha niente. Le comunità si stringono attorno al mullah e al capo
villaggio che, assieme al potere, hanno il dovere di assistere e proteggere. Famiglie
allargate si potrebbe definirle.
C'è un villaggio nella piana dello Shamolì,
un'ottantina di chilometri a nord di Kabul, dove vado di tanto in tanto. Immerso
nel verde, irrigato da una fitta rete di canali e fossati, ci si arriva per una
strada sterrata fiancheggiata da gelsi e e spinosi cespugli. Le case sono in fango
e legno, hanno muri alti e finestre piccole. La moschea soltanto è in muratura,
color lavanda, e ha sul tetto un altoparlante a batterie per chiamare alla
preghiera. Nel villaggio vive Noor Agha, un uomo di quarant'anni, padre di
quattro figli. Da dieci è in carrozzina, paralizzato. Non lavora e non ha terreni o
animali. Non mi è mai successo di trovarlo solo. Ha sempre un capannello
attorno a lui, sempre qualcuno del villaggio pronto a spingere la sedia a
rotelle, portargli da bere, parlargli o ascoltare. E la sera, miracolo, un
pasto per l'intera famiglia non manca. A turno lo portano i vicini. Vita
durissima, ma l'indispensabile è provveduto. Io, che i miei vicini neppure so
chi siano, mi commuovo ogni volta.
Piccole luci, piccoli Natali
nell'inverno afghano. Non disperiamo.
Alberto Cairo, 3 - fine