Sud Sudan, addio alle armi

Mentre il Governo provvisorio ritira dalla circolazione fucili e pistole, si profilano le vere sfide del nuovo Paese: fame, epidemie, analfabetismo.

12/02/2011
I ragazzi di una scuola di Juba (Sud Sudan).
I ragazzi di una scuola di Juba (Sud Sudan).

JUBA – Il quartiere di Tomping è una nuova area residenziale di Juba, non molto distante dal centro. Qui fino a pochi anni fa non c’era nulla, solo una distesa di sabbia ed erba su un pendio non troppo ripido. Oggi, in cima alla collina si trovano gli uffici della Commissione per il disarmo, incaricata di ritirare migliaia di armi leggere dagli ex-combattenti e di prosciugare così sul nascere un potenziale commercio clandestino.

     Ma non c’è solamente bisogno di disarmare le mani degli ex-guerriglieri, in Sud Sudan. C’è bisogno di disarmare un’intera nazione, abituata da più di vent’anni a difendersi, a combattere, a lottare. Bisogna disarmare la mentalità quotidiana, il modo di percepire l’altro. Qualche giorno fa sono incorso in un inconveniente rivelatore. Avevo un appuntamento con il segretario di un ministro ma non sapevo esattamente dove fosse il suo ufficio, così ho fermato un passante e ho chiesto indicazioni. L’uomo si è subito insospettito e mi ha indirizzato verso un altro uomo, rivelatosi poi un agente di polizia in borghese. L’agente mi ha fatto aprire la borsa, mi ha chiesto i documenti con fare sbrigativo e sospettoso e ha iniziato a fare domande sulla mia attività in Sud Sudan. Per fortuna, dopo varie domande si è accontentato del mio biglietto da visita.

     «Mi spiace per quello che è successo – si sarebbe in seguito scusato il segretario del ministro – ma la nostra gente, e specialmente gli agenti dei servizi di sicurezza, escono da più di vent’anni di guerra. Ci vorrà molto perché cambino mentalità e smettano di considerare chi viene da fuori una potenziale minaccia, magari una spia. Spesso non sanno né leggere né scrivere, quindi non possono riconoscere i documenti a meno che non ci sia un timbro dell’esercito o dei servizi di sicurezza, gli unici che riconoscono». Ogni sera torno a Tomping, dalla famiglia che mi ospita. Non sono mai fuggiti da Juba, nemmeno durante gli anni più duri della guerra.

     «Il periodo peggiore è stato il 1992, quando il SPLM/A (la guerriglia sudista che oggi è al governo) attaccò la città ma non riuscì a conquistarla – mi racconta Majok, il capofamiglia -  L’esercito compì terribili rappresaglie contro gli infiltrati ma anche contro la popolazione civile». Nell’intero quartiere mancano elettricità, acqua corrente e gas, benché qui si sia insediata la classe media di Juba, coloro che hanno un lavoro regolare e possono permettersi, lentamente, di costruirsi una casa in muratura. La sera si mette in moto il generatore e i bambini tirano fuori il televisore. Tutta la famiglia si raduna nel cortile a guardare il canale di Stato, South Sudan TV.

     Ciò che colpisce della programmazione non è tanto che il notiziario assomigli più ad un rendiconto dell’agenda presidenziale che ad un telegiornale, quanto il fatto che esso sia seguito, invariabilmente, da documentari militari. Per due sere di fila si celebra l’inaugurazione dell’aviazione del Sud Sudan: otto elicotteri che, come dichiara il Ministro della Difesa, «sono costati molto e molto costeranno per essere mantenuti, ma sono essenziali per la nostra sicurezza». Le altre sere vanno in onda immagini delle battaglie più importanti del SPLM/A, in cui si distingue l’attuale Presidente, Salva Kiir Mayardit, che incita le reclute brandendo una bandiera del Movimento e un crocifisso.

    Non c’è dubbio, è solo propaganda. Ma in un Paese che deve voltare pagina, continuare a guardare al passato – e ai suoi orrori – impedisce di affrontare le sfide del futuro. I nemici di oggi si chiamano povertà, fame, epidemie, analfabetismo: non si vincono in battaglia e non si combattono con gli elicotteri. Questa è la vera sicurezza, e la gente sembra esserne consapevole. «Le priorità del nuovo stato? – si chiede Nancy, un’attivista del SPLM/A – Non ho dubbi: sviluppo economico, educazione e sanità». Bisogna allora disarmare la politica, ma è un processo lungo e difficile, se si considera che pressoché tutti i ministri del Governo semiautonomo del Sud Sudan (GoSS) vengono dall’ala militare del Movimento di liberazione. Non si sono formati nelle scuole della diplomazia e dell’amministrazione, ma nel bush. Sono abituati a ricevere ed impartire ordini, più che a discutere e a mediare. Uomini che hanno appreso l’arte della guerra molto prima di quella della politica.

     Per questo bisogna trattenersi dal dare giudizi avventati sull’élite al potere a Juba. «Bisogna capire – spiega un diplomatico – che in questi sei anni il loro obiettivo è stato unicamente quello di giungere all’indipendenza. Si sono concentrati su questo obiettivo e hanno cercato di metterlo al sicuro anche preparandosi all’eventualità di una nuova guerra. Ora dovranno affrontare le sfide della costruzione di uno Stato, e sembrano consapevoli della sfida. Su questo li giudicherà la storia». Non è dello stesso avviso Janine, giovane giornalista sud sudanese, che accusa le autorità di pensare solo al proprio tornaconto: «Dopo la firma degli accordi di pace il GoSS ha pensato solamente ad asfaltare le strade del centro e a costruire i palazzi dei ministeri. I ministri ed i parlamentari hanno tutti splendide macchine, mentre all’ospedale di Juba manca tutto. Non ho mai visto un padre che va a mangiare in un ristorante di lusso mentre i suoi figli, a casa, muoiono di fame».

     Un ristorante di lusso per pochi o una casa accogliente per tutti? Il futuro del Sud Sudan è racchiuso in questa semplice metafora. Non è questo il momento di criticare o di prevedere il peggio, ma il momento di assumersi la responsabilità di aiutare il più giovane Stato africano a imparare a camminare, e a partire con il piede giusto.

4° puntata - fine

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