20/01/2011
Membri della Commissione per il referendum al lavoro sulle schede.
KHARTOUM - È una situazione di attesa paradossale quella che vive il Sudan dopo la chiusura delle urne del referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan. L’esito delle consultazioni è infatti scontato, dopo la dichiarazione del raggiungimento del quorum – fissato al 60% – e il riconoscimento da parte del Partito del Congresso Nazionale, principale forza politica nordista, della sostanziale correttezza delle operazioni di voto.
I primi risultati lasciati trapelare dalla Commissione per il referendum indicano percentuali vicine al 100% a favore dell’opzione secessionista, ma nella capitale campeggiano monumenti e manifesti che celebrano l’unità. Sono comparsi a Khartoum negli ultimi mesi, quasi a manifestare la volontà dell’élite nordista di giustificarsi davanti alla storia: la divisione del Paese non è stata voluta da “noi”, ma da “loro”. L’aria non è tesa, almeno non in maniera manifesta. Qui tutto è ricoperto da una spessa coltre di polvere e sabbia, anche gli umori della società. La separazione è vissuta dalla gente come un divorzio consensuale, dopo che quasi cinquant’anni di guerra hanno consolidato l’idea che Nord e Sud non possano convivere entro gli stessi confini.
Asma, giovane studentessa dell’Università di Khartoum, nota come “il razzismo verso quelli del Sud è aumentato, tanti vivono la secessione come una liberazione. Sperano che il Sud porti via con sé anche le interferenze occidentali nella nostra politica”. Eppure la convivenza, pur tra le difficoltà, i pregiudizi e le violenze, è una realtà ineludibile specialmente nella capitale, dove centinaia di migliaia di sud sudanesi vivono, studiano e lavorano da decenni. Esistono spazi dove la convivenza è una realtà quotidiana e consolidata. Il Comboni College, ad esempio, è un istituto universitario riconosciuto dallo Stato e frequentato da più di 400 studenti, cristiani e musulmani, originari del Sud e del Nord. “Sono più di cinquant’anni che vivo qui”, spiega padre Peppino, comboniano veneto con passaporto sudanese e direttore dell’Istituto, “e non ho mai avuto problemi con i musulmani. Molti dei nostri insegnanti lo sono”.
Il timore è che dopo la separazione del Sud possano prevalere a Khartoum le posizioni più estreme di chi dichiara già oggi di voler ritirare la cittadinanza ai sudisti e fare del Nord Sudan uno Stato islamico senza spazio per il pluralismo. Persino il presidente Omar al-Bashir, in alcuni comizi, ha sostenuto queste posizioni, per poi negarle in situazioni più ufficiali. Per questo, molti scelgono la fuga. Interi quartieri e campi profughi si sono praticamente svuotati, la gente ammassa le proprie cose al bordo della strada radunandosi con i propri compaesani, in attesa che arrivi un camion diretto a Sud.
Non bisognerebbe chiamarli “ritorni volontari”, ma forse “pulizia etnica volontaria”, benché si sia svolta fin’ora in modo relativamente pacifico. Per molti, il viaggio verso il Sud non è un ritorno ma un salto nel buio verso un villaggio lasciato dieci, venti o trent’anni fa. Ognuno cerca di valutare la situazione come meglio può: alcuni lasciano i figli a Khartoum, perché possano proseguire gli studi; altri li portano a Sud per metterli al sicuro, e poi tornano nella capitale per poter lavorare. Vite destinate a rimanere senza una patria, vittime collaterali di una separazione resa inevitabile dalla storia e dalla violenza.
(scrive dal Sudan per Famigliacristiana.it un esperto di poliltica internazionale che, per ragioni di sicurezza, preferisce mantenere l'anonimato)