Sud Sudan, la lotta per la secessione

Continua il reportage dei nostri inviati in Sud Sudan: un'Africa poco "contaminata" che attende con ansia il referendum del 9 gennaio. E dove il sistema sanitario è inesistente. Video.

Dei due nomi che si danno a un bambino quando nasce, uno viene dalle mucche

25/11/2010

Dai nostri inviati a Yrol-Rumbek, Sud Sudan -
Il sole a piombo e i 42 gradi rendono l’orizzonte liquido e tremolante. Non si vede un granché ma ci fermiamo. Sembra un grande assembramento di persone. In effetti lo è, a qualche centinaio di metri dalla grande pista di terra rossa che corre da Juba verso Nord, costeggiando il Nilo per più di 150 chilometri, prima di piegare verso ovest in direzione di Yrol e Rumbek. Cos’è?, chiediamo. Una gara di wrestling, ci risponde il primo tipo che ci viene incontro, bardato di un mantello coloratissimo sopra il torso nudo e di una lancia più lunga di lui (che è già molto lungo, se non arriva a due metri poco manca).

Wrestling? Sì, il nome è lo stesso di quello sport-spettacolo americano trasmesso in qualche tv, ma solo il nome. È una tradizionale gara di lotta combattuta con le sole mani: due contendenti, il primo che finisce a terra anche soltanto con le ginocchia ha perduto. Poi altri due, e altri ancora. Ogni villaggio mette in campo i suoi uomini più forti e abili: vinca il miglior lottatore, vinca il villaggio i cui lottatori si aggiudicano più scontri diretti. Combattenti, percussionisti, danzatrici sono tutti maschere di sudore, di polvere e di energia.

Lo “stadio” è un grande spiazzo erboso nella boscaglia. Fra uno scontro e l’altro, si balla, si incita, si sfottono gli avversari sconfitti, si sfila con movenze e passi rituali. Il ritmo dei tamburi è incessante, le donne fanno da ancestrali ragazze pon-pon. Nel caos più totale della gara e della festa non riusciamo a accertarlo, ma probabilmente è un rito che si ripete da secoli, in Sud Sudan. È un’Africa poco “contaminata”, quella che si vede qui. A parte Juba (la futura capitale del Paese se al prossimo referendum del 9 gennaio vinceranno i favorevoli alla secessione), che seppure in miniatura – ha solo 200 mila abitanti – assomiglia a tante altre città africane in via di occidentalizzazione, il fazzoletto di territorio che abbiamo attraversato è fatto di piste, savana, boscaglia, paludi.

La gente, i ritmi di vita, la cultura, gli abiti, tutto sembra affondare in tradizioni secolari. Siamo fra i dinka, questa è l’etnia dominante dell’area che va da Yrol a Rumbek. Pastori e guerrieri, la loro vita è ancora in simbiosi con le mandrie di mucche. Si prende moglie offrendo un certo numero di vacche alla sua famiglia, si guadagna prestigio sociale in base alla quantità di capi che si possiede. Dei due nomi che si danno a un bambino che nasce uno viene dalle mucche, dal colore o dalle loro caratteristiche.

Si vive con loro, nei cattle camp, ossia gli accampamenti temporanei dove sostano per due o tre giorni pastori e bestiame. Di giorno le vacche vengono portate al pascolo. All’imbrunire rientrano e si radunano a centinaia. Tutto intorno i bambini accendono fuochi, bruciando lo sterco seccato degli animali per proteggersi col fumo da mosche e altri animali. All’interno di questo cerchio si accovacciano gli uni accanto agli altri uomini e vacche.

Le famiglie dormono riunite, sotto un unico telo sostenuto da quattro bastoni. Quando la terra inaridisce sotto il sole rovente, questa popolazione seminomade si sposta, alla ricerca di nuovi pascoli. Per sei mesi all’anno – tanto dura la stagione secca – mandrie e pastori inseguono l’erba verde, fino alle rive del Nilo. Ora che la guerra è finita (nel 2005, dopo 22 lunghi anni), i conflitti fra clan avvengono per il bestiame. Non manca l’acqua, ai Dinka, né i frutti della terra, né tantomeno il latte o la carne. Manca tutto il resto: scuole decenti, strade degne di questo nome, la possibilità di trovare un medico e dei farmaci.

I 54 anni di vita del Sudan indipendente sono una storia di emarginazione e sfruttamento del Nord arabo e islamico sul Sud delle etnie africane. E di guerre senza fine, che hanno lasciato a questa popolazione l’acqua, le terre fertili, il legname, le mandrie. E nient’altro.

Luciano Scalettari
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